Happy Hour #46: La Bestia, il Glicked e la distribuzione
Arriva in sala dopo più di un anno uno dei film migliori di Venezia 2023, mentre il fenomeno Glicked scuote il box office
Dispiace constatare come uno dei film che più ci aveva colpito alla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno, La Bete di Bertrand Bonello (distribuito inspiegabilmente col titolo The Beast), sia praticamente introvabile nei cinema italiani. Uscito su pochissimi schermi e senza una grande campagna promozionale alle spalle (nonostante FilmTV l’abbia inserito nel suo progetto Anima&Corpo), il film è uscito in 10 sale nella prima settimana di programmazione, e attualmente è quasi sparito dai cinema. Un vero peccato, visto che si tratta di uno dei film più belli degli ultimi anni, a cui dedichiamo una lunga recensione in questo numero di Happy Hour per cercare di mettere in luce alcune possibili piste interpretative, consapevoli di non esaurire assolutamente il discorso attorno a un’opera così densa e stratificata.
Il botteghino internazionale (e in parte anche quello italiano) è invece scosso dal fenomeno “Glicked”, crasi tra Il Gladiatore 2 e Wicked che vorrebbe mimare il Barbienheimer, ma rispetto al secondo, che fu un fenomeno sostanzialmente “dal basso”, sembra più un tentativo posticcio di far partire un trend da parte delle case di produzione. Anche di questi due film parliamo nella newsletter di oggi. Sempre a proposito di distribuzione, segnaliamo la scelta assurda, per un film tratto da uno dei musical di più grande successo a Broadway degli ultimi 25 anni, di doppiare anche le canzoni originali nella versione doppiata di Wicked (per fortuna sta circolando anche la versione originale, con un buon riscontro di pubblico). Le uscite importanti non accennano a diminuire: giovedì arrivano due grandi film, Grand Tour di Miguel Gomes, che ci aveva stregato a Cannes, e La stanza accanto di Pedro Almodovar, film vincitore del Leone d’Oro di cui avevamo scritto da Venezia. Per permettere una copertura adeguata dei molti titoli in uscita, Happy Hour uscirà con un nuovo numero ogni lunedì da qui alla fine del mese.
La Bete
di Bertrand Bonello
Una donna e un uomo, Gabrielle (Lea Seydoux) e Louis (George Mackay, ma la prima scelta era Gaspard Ulliel, tragicamente scomparso, a cui il film è dedicato), continuano ad incontrarsi in diversi momenti storici: 1910, 2014, 2044. Nonostante entrambi (soprattutto Gabrielle) riescano a percepire l’esistenza di un immateriale filo che li lega l’uno all’altra, il loro rapporto non ha sempre connotati idilliaci: nella Parigi di inizio Novecento la piena della Senna mette fine ad un sentimento che i due non avevano il coraggio di concretizzare, nella Los Angeles di 10 anni fa Louis è un esponente della sottocultura incel che bracca Gabrielle fin dentro casa nel tentativo di ucciderla, e nel futuro governato dalle IA, in cui ci sembra di rivedere il Cronenberg di The Shrouds (che però è uscito dopo La Bete), le emozioni sono ormai solo un ricordo sbiadito. Ci sono degli elementi ricorrenti: la distruzione portata dalle catastrofi naturali (inondazioni, terremoti), i piccioni con il loro ruolo premonitore, il tentativo di affidarsi a una sensitiva per predire il futuro, e una paura irrazionale di Gabrielle verso una minaccia misteriosa che potrebbe sconvolgerne l’esistenza.
Per quanto il segmento più immediatamente spaventoso sia quello ambientato nel 2014, per cui Bonello da una parte si ispira ad un fatto di cronaca (gli omicidi di Elliot Rodger, da cui riprende alcuni monologhi alla lettera) e dall’altra guarda chiaramente a Lynch per la messa in scena (siamo di fronte del resto ad un film “about a woman in trouble”, per usare la stessa criptica espressione che il regista del Montana aveva usato per descrivere Inland Empire), è evidente che la deriva dei rapporti umani nel corso dei decenni sia interpretabile in senso chiaramente pessimista. Se nella Parigi di inizio Novecento è l’amore il sentimento che lega i due protagonisti (irrealizzato, frustrato, ostacolato, ma pur sempre amore), nel 2014 Louis è mosso dall’odio e dalla frustrazione, mentre Gabrielle continua a nutrire una flebile speranza nell’umanità del ragazzo. Non è detto, tra l’altro, che le speranze di Gabrielle non siano ben riposte: la sequenza dell’omicidio è mostrata tramite immagini disturbate, mandate avanti e riavvolte da un misterioso “telecomando” (Funny Games?), e non è certo che l’ultima immagine mostrata (Gabrielle morta in piscina, con la faccia verso il basso, come il cadavere di Viale del Tramonto) sia quella effettivamente “reale”. Nel futuro invece non c’è più spazio per i sentimenti: sia Louis che Gabrielle si sottopongono ad una procedura per eliminare le emozioni, nella speranza di poter poi trovare un lavoro (il dominio delle IA ha prodotto oltre il 60% di disoccupazione), ed è solo a causa di un bug, un errore del sistema, che la procedura su Gabrielle non ha l’effetto sperato.
-Can you be afraid of something that’s not actually here?
Un film come La Bete, che si apre con un’attrice immersa nel green screen di un set cinematografico e si chiude con l’urlo di una donna come il finale della terza stagione di Twin Peaks (forse vera opera-chiave del quarto di secolo che si avvia ora alla conclusione), non può che essere letto anche in chiave metacinematografica, tanto più che le bambole di cui si occupa Gabrielle nel segmento parigino sono fatte proprio di celluloide, lo stesso materiale delle pellicole su cui si stampa(va)no i film. La perdita di contatto dei protagonisti (e in particolare di Louis) verso i propri sentimenti si traduce quindi anche in una riflessione sulla progressiva smaterializzazione delle immagini di cui fruiscono (e con loro gli spettatori): dalla tangibilità della pellicola, simbolo del cinema del Novecento, passando per l’inconsistenza dell’immagine digitale, che è onnipresente (le telecamere di sorveglianza della villa) e allo stesso tempo impalpabile (-Puoi avere paura di qualcosa che non è davvero qui?, chiede il regista a Gabrielle), più facilmente manipolabile e (quindi?) ingannevole e falsificabile, fino ad arrivare al cinema asettico e anestetizzato dell’intelligenza artificiale, di cui solo ora stiamo iniziando ad intravedere i possibili sviluppi ma da cui La Bete sembra volerci mettere in guardia.
E forse la diffidenza verso questa rivoluzione, la cui portata non è ancora davvero chiara a nessuno, dagli artisti ai legislatori passando per tutti i lavoratori, è proprio da ricercarsi nelle potenzialità che La Bete sembra intravedere nell’imprevisto, nello scarto, o in altre parole nel glitch: unica chance per Gabrielle di sottrarsi all’algoritmo, all’appiattimento, alla morte (oggi) o peggio ancora alla omologazione come unica possibilità di sopravvivenza (domani). E dietro dunque il volto di un inclassificabile thriller che mescola la fantascienza distopica cronenberghiana (c’è anche Crimes of the future, la cui eco è portata anche dal corpo attoriale di Lea Seydoux) con un period-drama che echeggia L’età dell’innocenza, Bonello ci dimostra ancora una volta che alla sua visione del cinema corrisponde sempre una precisa visione di mondo: dall’autore di Nocturama, uno dei grandi film politici (e generazionali) dei nostri tempi, non potevamo aspettarci niente di diverso.
Wicked
di Jon M. Chu
In Italia la portata del fenomeno Wicked può essere compresa solo guardando ai numeri che il film sta facendo registrare oltreoceano: 114 milioni di dollari nel primo weekend in Nordamerica, terzo incasso dell’anno nel primo weekend, miglior partenza al mondo nel 2024 per un film che non è un sequel (!), maggiore apertura di sempre per un musical adattato da Broadway e quarta della storia per un musical tout-court. Il film, che racconta la genesi della Strega dell’Ovest nel magico mondo di Oz, vanta dalla sua parte le performance eccezionali, sia dal punto di vista canoro che recitativo (e per nessuna delle due interpreti potevamo mettere la mano sul fuoco da entrambi i punti di vista) di Cynthia Erivo nei panni della futura strega, di cui questo film (attenzione: questa è solo la Parte 1) è una lunga origin story, e di Ariana Grande nei panni di Glinda. Dispiace ancora di più che a una scelta di casting così azzeccata, e di fronte a una cura indiscussa di costumi e scenografie (per quanto non particolarmente innovative), il regista non sia stato in grado di accostare una messa in scena all’altezza, soprattutto dal punto di vista delle coreografie dei numeri musicali, spesso dimenticabili (con due notevoli eccezioni: Dancing through Life e Defying Gravity), e della piattezza dell’estetica plasticosa in CGI che pervade ogni inquadratura di Wicked. Resta però negli occhi un finale pirotecnico che può lasciare ben sperare per la seconda parte, attesa per il 2025.
Il Gladiatore 2
di Ridley Scott
Il Gladiatore si apriva con un impero che, dopo aver sconfitto gli ultimi nemici rimasti, ambiva a ritrovare la purezza di un passato mitologico (quello repubblicano invocato da Marco Aurelio) e si trovava invece costretto a difendersi da sé stesso (Commodo e le sue congiure). Era il 2000, la Guerra Fredda era finita da un decennio e l’avevano vinta gli Stati Uniti, e si parlava addirittura di “fine della storia”. Quello che Il Gladiatore non vedeva (e non poteva vedere) erano i fantasmi dell’11 settembre, che di lì a un anno avrebbe cambiato tutto, anche per il cinema. Seppure meno centrate, eco del nostro presente si possono scorgere anche in Il Gladiatore 2, dalla corruzione dilagante ormai endemica all’impero romano alla perdita di complessità (anche rispetto al predecessore) di tutte le relazioni di potere, divenute un triviale gioco al massacro senza alcuna profondità. Roma è ora governata da Geta e Caracalla, due gemelli biondi, pazzi e infantili (come i Lannister del Trono di Spade), e un prigioniero delle guerre contro Giugurta (Paul Mescal), che ha perso la moglie in battaglia, viene comprato dal machiavellico Macrino (Denzel Washington, che gigioneggia con impareggiabile maestria) per combattere nelle arene.
Il Manuale del Blockbuster Contemporaneo, al Capitolo “Sequel”, ci insegna però che le grandi saghe (Star Wars in questo senso è la più emblematica, ma potremmo citare anche Matrix o tante altre) sono innanzitutto una questione di sangue, e non a caso Il Gladiatore 2 nel suo dipanarsi finisce con l’assomigliare sempre di più al suo predecessore: Paul Mescal è mosso da una sete di vendetta insaziabile (diretta verso Pedro Pascal, il generale romano che ha ucciso sua moglie), nei palazzi si trama per realizzare ancora i sogni di Marco Aurelio (il “dream of Rome” più volte menzionato, ma che forse non è mai esistito se non nei sogni di un vecchio, come suggerisce Macrino), e c’è di nuovo un esercito appena fuori Roma pronto a intervenire per ridare il potere al Senato. Ciò che colpisce (in negativo) è l’estrema disinvoltura con cui le motivazioni dei personaggi del film del 2000 vengono appiccicate sui protagonisti del Gladiatore 2, come se davvero l’unico modo per il blockbuster, oggi, di rigenerarsi sia per duplicazione e innesto, senza alcuna cura degli effetti di questa ingegneria genetica sull’organismo ospitante. E allora dobbiamo forse guardare da un’altra parte, per cogliere il senso del Gladiatore 2: alle arene assetate di sangue e spettacolo e al pubblico che le abita, questa volta anche parte attiva delle vicende e vittima delle stesse (c’è uno spettatore infilzato da una freccia), in un continuo gioco al rialzo: della violenza messa in scena, dello spettacolo dei combattimenti invasi da una CGI a tratti fastidiosa (la lotta con le scimmie), delle mire dei gladiatori e di chi li manovra. “Are you not entertained?”, urlava Massimo Decimo Meridio nel film del 2000. “Sì, lo siamo”, verrebbe da rispondere. Ma in Il Gladiatore, seppure per brevi istanti, si vedeva anche il cielo: in Il Gladiatore 2 sono rimasti solo il sangue e l’arena.