Happy Hour #6: nel giorno del saluto a Friedkin una bestia sbarca sul Lido
Tra ufo tedeschi, banditi romani e biopic in odore di Oscar arriva il film di Bonello a sparigliare le carte
L'oggetto misterioso del Concorso di quest'anno è senz'altro Die Theorie Von Allem, noir tedesco girato in un bianco e nero che è l'esatto contrario di quello patinatissimo di El Conde (comparare la foto qui sotto con quella del terzo numero per credere), in cui il protagonista, un dottorando in fisica (!!!) si ritrova in mezzo ad uno scontro ideologico sulla sua tesi di dottorato (!!!) in un albergo sulle Alpi, tra misteriose dark lady che vivono due volte, fantasmi della guerra e addirittura viaggi nel tempo. Oltre alla sostanza, è la forma di questo film a infittire la nebbia che lo circonda, in quanto sembra che il regista (Timm Kroger, poco più che esordiente) lo abbia girato proprio come sarebbe stato girato un noir negli anni 50, sia dal punto di vista visivo che per quanto riguarda la colonna sonora, pervasa da sonorità orchestrali genuinamente retrò. Un film sbilenco e tutt'altro che quadrato a cui però abbiamo voluto bene.
Fa invece dell'essenzialità stilistica e della sceneggiatura di ferro i suoi punti di forza The Caine Mutiny Court Martial, ultima fatica (Fuori Concorso) del compianto William Friedkin (nella foto) e dell'attore Lance Reddick: Maryk (Jake Lacy), primo ufficiale della nave antimine Caine è chiamato a rispondere davanti alla corte marziale (presieduta da Reddick) dell'accusa di ammutinamento ai danni del suo Capitano Queeg (Kiefer Sutherland); a difenderlo, con una certa riluttanza, sarà l'avvocato Greenwald (Jason Clarke). Dramma giudiziario secchissimo, inizialmente previsto per la televisione, The Caine Mutiny Court Martial è l'ennesima ricognizione sull'orlo della "sottile linea che separa il bene dal male" (parole sue) di William Friedkin, che come al solito non si tira indietro quando si tratta di mettere lo spettatore in una posizione scomoda. La standing ovation della Sala Grande è stata il sacrosanto saluto a un gigante della Settima Arte.
Ci ha convinto solo a metà Maestro (in foto), il convenzionale (troppo?) e commovente biopic che Bradley Cooper ha dedicato a Leonard Bernstein, già in odore di Oscar (a naso, almeno per Carey Mulligan), che sceglie di concentrarsi più sulla vita privata che su quella professionale del “greatest american conductor”, pur trovando nell’esecuzione della Mass (realmente riprodotta dal vivo, con un vero coro e una vera orchestra) la scena più riuscita del film. Da segnalare comunque la standing ovation di sette minuti più surreale e simbolica di sempre tributata dal pubblico presenta in Sala Grande, visto che alla Prima (per gli ormai noti motivi legati allo sciopero) non erano presenti né il cast né il regista.
Non abbiamo riportato (onestamente perché, leggendo i titoli di sfuggita, l’avevamo scambiata per una boutade) la discussa dichiarazione di Favino, per il quale l’interpretazione di personaggi italiani da parte di divi americani (riferita ad Adam Driver in Ferrari) sarebbe “appropriazione culturale”; mentre La Stampa gli fa la morale e Il Giornale lo accusa addirittura di sovranismo di ritorno, noi preferiamo commentare Adagio, secondo film in Concorso con l’attore romano protagonista a cui dedichiamo la prima recensione di oggi.
Con Nocturama (2016, in foto), Bertrand Bonello aveva firmato forse il ritratto generazionale più lucido e (sicuramente) più cupo degli ultimi anni; al suo magnifico La Bete, fino ad ora nostra assoluta folgorazione del Concorso, è dedicata la seconda recensione.
Adagio
di Stefano Sollima
Roma è in fiamme. Adagio si apre con una stupefacente ripresa aerea (fotografia di Paolo Carnera, una garanzia) che mostra la Città Eterna sovrastata dalle fiamme e martoriata da frequenti blackout, che lasciano come unica luce i fanali delle auto che si rincorrono sul raccordo anulare. Tre ex componenti della Banda della Magliana, Cammello (Pierfrancesco Favino), Pòl Niuman (Valerio Mastandrea) e Daytona (Toni Servillo), vengono riuniti dalle circostanze per proteggere il figlio di uno di loro, cacciatosi in un guaio più grande di lui, tra carabinieri corrotti e politici travestiti, in un’ultima notte (d’amore) nella città dei vivi. Regista più interessato alla spettacolarizzazione del cliché che alla messa in scena della complessità, con Adagio Stefano Sollima conclude, dopo A.C.A.B.- All Cops Are Bastards e Suburra, la “trilogia criminale romana”; la collaborazione di Stefano Bises (firma della serialità prestige di Sky) in sceneggiatura evita grosse cadute di stile, e se si è disposti a mettere da parte l’enfasi e la retorica c’è spazio persino per un po’ di speranza, anche se la pioggia biblica di Suburra è nel frattempo diventata di cenere.
La Bete
di Bertrand Bonello
Un uomo e una donna continuano ad incontrarsi in luoghi e tempi differenti; lei ha paura che qualcosa di terribile stia per accadere, e per risolvere i suoi dubbi è disposta anche ad affidarsi a un’indovina…ma sta succedendo davvero?
- Can you get scared by something that's not actually here?
E se fossero le immagini la bestia che terrorizza Lea Seydoux nell'ultimo film di Bertrand Bonello? Lungi dal dare risposte univoche, La Bete resta meravigliosamente aperto, muovendosi con disinvoltura tra le ansie del presente, districandosi tra maschilismo tossico, white trash (la stessa di Trash Humpers di Harmony Korine), intelligenza artificiale e cambiamento climatico (che porta addirittura Parigi ad assomigliare a Venezia) in un susseguirsi inesausto di false piste interpretative e deviazioni di genere, con una profondità teorica e concettuale che non vanno mai a discapito del Cinema (con memorabili scene di tensione degne del più teso dei thriller), trovando in Lea Seydoux, per la quale abbiamo esaurito gli aggettivi, la protagonista perfetta per dare un volto cangiante alle mille anime del film. Assoluto colpo di genio i titoli di coda.