Happy Hour #3: Comandanti, conti e signori della guerra
Mentre il Concorso entra nel vivo, il documentario di Ibrahim Nashat porta gli orrori dell'Afghanistan sul Lido
Alla proiezione stampa di El Conde (seconda recensione di oggi ed uno dei tre film Netflix in concorso), quando è apparso il logo della grande N, dalla platea sono partiti dei buuu, qualche fischio e un urlo inequivocabile:“pagate i lavoratori”. La questione dello sciopero di attori e sceneggiatori insomma è più calda che mai; lo ha ricordato anche il Presidente di Giuria Damien Chazelle, che si è presentato in conferenza stampa con una maglietta battagliera (in foto) sostenendo i suoi colleghi. È presto per dire se tutto ciò possa influenzare le possibilità dei film Netflix di vincere dei premi?
Le immagini più scioccanti della giornata di ieri sono sicuramente quelle del documentario Hollywoodgate, di Ibrahim Nashat, presentato Fuori Concorso: per qualche motivo, il regista ha ottenuto dai talebani il permesso di andare in Afghanistan per un anno a meno di due settimane dalla restaurazione del regime a seguito del ritiro delle truppe americane, a patto di sottostare a due condizioni: avrebbe potuto filmare solo i talebani e le loro famiglie, e sarebbe stato controllato costantemente. Rischiando la propria vita (il Ministro della Guerra lo dice chiaramente parlando con un militare, “se fa il furbo lo ammazziamo”), Nashat ha dovuto lavorare con le immagini che i talebani hanno voluto dare di loro stessi, cercando di restituire agli spettatori quello che lui aveva davvero visto. Lo scarto è sorprendente; in una delle scene più inquietanti, un talebano afferma tranquillamente di aver ucciso un “traditore” accanto ad un bambino. Possiamo dire che l'orrore che Nashat non poteva vedere (era costretto a stare con i talebani nell'aeroporto di Kabul), ma che “percepiva costantemente”, l'abbiamo avvertito forte e chiaro.
A Comandante e Dogman (per ora senza dubbio la nostra folgorazione della Mostra) sono dedicate la prima e la terza recensione di oggi. Rimandati a domani Ferrari e Wes Anderson.
Comandante
di Edoardo De Angelis
Quando un marinaio belga gli dà del fascista, Salvatore Todaro (Pierfrancesco Favino), il comandante del titolo, replica "Io sono un uomo di mare"; quando però gli si chiede il motivo un suo gesto nobile, Todaro risponde "Perché sono italiano". Nel raccontare la storia vera di un comandante italiano (dipinto come inappuntabile e senza macchia, quasi troppo perfetto) che ha soccorso dei marinai belgi durante la seconda guerra mondiale, Edoardo De Angelis non riesce a non sconfinare in una retorica nazionalista, malgrado le intenzioni iniziali fossero ben altre ("In mare si soccorrono tutti", più chiaro di così...). Ed è un peccato, perché il film si pregia di valori produttivi assoluti (i costumi di Massimo Cantini Parrini e le scenografie di Carmine Guarino nulla hanno da invidiare alle più ricche produzioni americane, da Caccia a Ottobre Rosso in giù), innerva la sceneggiatura di sottotesti subliminali (il sottomarino come utero nel liquido amniotico del mare) e si poggia su un'interpretazione come sempre inappuntabile di Favino, giunto alla tappa veneta del suo personalissimo e pervicace tour linguistico tra i dialetti italiani; l'attore ha dichiarato che lo affascinava interpretare un personaggio "pieno di gradazioni": peccato che le gradazioni fossero tutte dello stesso colore.
El Conde
di Pablo Larraìn
"History is not fair", declama la voce over femminile in un inglese perfettamente britannico; vediamo quindi il vampiro Pinochet stagliarsi sul Palacio de La Moneda, lo stesso che aveva bombardato l'11 Settembre del 1973. Sembra che quello appena riportato sia un segmento di aperta condanna verso la dittatura cilena (e ovviamente lo è), ma in realtà El Conde è pervaso per tutta la sua durata da un'ironia molto tagliente: in questa scena, la narratrice, la cui identità non sveliamo, è rattristata dal fatto che Pinochet (che è un vampiro di 250 anni, nato subito prima della rivoluzione francese: è chiaro il concetto?) non sia più al comando del paese, costretto a (non) vivere in un'isoletta speduta mentre i figli aspettano ansiosi la sua dipartita per potersi finalmente spartire l'eredità. Partendo da questa premessa surreale, Larraìn imbastisce una horror comedy visivamente sontuosa, ambiziosissima nei rimandi iconigrafici (da Nosferatu a La passione di Giovanna D'Arco) e negli intenti, ossia fare i conti in maniera diretta con la figura centrale del suo cinema e della storia del Cile, schernendola, demonizzandola e circondandola di mostri. Un'opera complessa e spiazzante su cui sarà necessario tornare.
Dogman
di Luc Besson
Potrebbe essere un supereroe Doug, il Dogman di Luc Besson. Buttato in una gabbia di cani da piccolo dal padre violento, abbandonato dalla madre debole e costretto in sedia a rotelle, Doug (Caleb Landry Jones, semplicemente strepitoso), che il destino, dog, ce l'ha già nel nome, sviluppa la capacità di comunicare con i cani a tal punto da far fare loro praticamente qualsiasi cosa. Come sia finito in una centrale di polizia, che rapporto abbia con Shakespeare, il suo primo amore e le sue attività più o meno lecite sono al centro del colloquio con la psichiatra interpretata da Jojo T. Gibbs, chiamata a decifrare l'individuo imparruccato che la polizia del New Jersey ha fermato alla guida di un furgone pieno di cani in una notte piovosa. Per fortuna (nostra), a Luc Besson della verosimiglianza non è mai importato nulla, perché quello che conta è sempre e prima di tutto il cinema: che sia una sparatoria notturna in un edificio abbandonato o un'esibizione in un locale di Drag Queen sulle note di Edith Piaf, l'obiettivo è raggiungere "quell'unico momento in cui il riflesso può farci dimenticare l'immagine". Per fortuna Dogman, forse il miglior film di Besson, abbonda di momenti del genere, grazie alla tecnica sopraffina del francese ed alle musiche del fidato Éric Serra, fondamentale nel definire l'estetica bessoniana da Subway ad oggi. Una menzione al magnifico finale, con un primo piano di un dobermann che scioglierebbe anche il più duro dei cuori.