Happy Hour Speciale Cannes77 #6: Parthenope e Grand Tour
Recensione dei nuovi film di Sorrentino e Miguel Gomes nell'ultimo dispaccio dalla Croisette
Alle tante “lettere di amore al cinema” che stanno imperversando nella produzione autoriale degli ultimi anni (con esiti piuttosto altalenanti) si va ad aggiungere il documentario Spectateurs di Arnaud Desplechin, presentato ieri in Sala Vardà. Costruito come un diario di esperienze spettatoriali, a cui vengono alternate ricostruzioni di finzione (interpretate da grandi attori francesi, da Francoise Lebrun al fidato Mathieu Amalric) e spezzoni di film, di Spectateurs colpiscono sia la varietà delle fonti, capace di abbacciare uno spettro ampissimo che parte da Notting Hill e, passando per L’età dell’innocenza e I 400 colpi arriva fino a Shoah di Claude Lanzmann (tra i tanti aspetti del cinema che interessano a Desplechin c’è anche quello della testimonianza), che il cuore cinefilo commovente e sincero.
Questo era (ahimé…) l’ultimo dispaccio dalla Croisette. Sicuramente torneremo a parlare dei titoli di Cannes nei prossimi numeri (Marcello mio e Mad Max: Furiosa sono già nei cinema, Kinds of kindness è in uscita il 6 giugno). Le ultime recensioni da Cannes sono dedicate a un grande film e (purtroppo) ad una cocente delusione: Parthenope di Paolo Sorrentino e Grand Tour di Miguel Gomes…anche se non in quest’ordine.
Parthenope
di Paolo Sorrentino
-A cosa stai pensando?
Forse in questa domanda, ripetuta ossessivamente per tutto il film, sta il senso di Parthenope: non un film sull’omonima protagonista, interpretata dalla luminosa esordiente Celeste Della Porta, bellissima (anche il fratello ne subisce il fascino), intelligentissima (studia antropologia con Silvio Orlando), quasi inavvicinabile, non un film su Napoli, di cui Parthenope è (sin dal nome) esplicita metafora, non un film sulla giovinezza, il negativo di Youth, ennesimo ritorno di Sorrentino all’ossessione per il tempo che passa lasciando solo rimpianti (con il solito Cocciante a fare da sottofondo), affrontata col consueto sguardo decadente, quanto piuttosto un film sul mistero (femminile) e sull’incapacità di penetrarlo. Forse. Ma Parthenope, pur regalando momenti potentissimi, specie quando lascia parlare le immagini, non riesce a scalfire la superficie (della città, ridotta a sequenze macchiettistiche più o meno ispirate, tra il miracolo di San Gennaro e lo scudetto del Napoli, e della vita, che per Sorrentino sembra essere una trafila di citazioni tra un vademecum di Celine e un rewatch distratto di Viale del Tramonto), si autocompiace della propria ostentata arguzia e, orgogliosamente sprezzante verso qualsiasi senso di realtà (che da “scadente” è diventata “indicibile”), si perde come la sua omonima protagonista.
Grand Tour
di Miguel Gomes
Birmania, 1918. Eduard, funzionario britannico di stanza a Rangoon, aspetta l’arrivo della sua fidanzata Molly per sposarsi, ma proprio all’ultimo, spaventato, scappa. Va a Bangkok, poi a Saigon, si perde nel palazzo di un piccolo principe (può essere anche bello, perdersi), si imbarca su una nave della marina americana diretta a Osaka, si imbosca in un monastero giapponese, risale il Fiume Giallo, si accampa nella giungla, osserva i panda che si dondolano tra i bamboo. Molly lo segue, e grazie a un formidabile istinto e a un po’ di fortuna riesce a ripercorrerne le tracce, ma Eduard sembra sempre un passo avanti a lei in questo interminabile Grand Tour dell’Asia. “Può sembrare una storia molto triste”, dice un anziano ospite a Molly, dopo che questa le ha confessato che sta inseguendo il suo fidanzato per sposarlo ma che ignora dove si trovi al momento; “No”, risponde lei, ridendo. E basta. È come se per Gomes non esistesse alcuna corrispondenza tra la trama e il tono di Grand Tour. Lo stile lo conferma: se Tabù era girato come una commedia RKO degli anni ‘40, Grand Tour ricorda, sia nel bianco e nero della fotografia che nell’uso di tutti i trucchi tipici del cinema delle origini, le commedie di Chaplin e Buster Keaton, contaminandole però con inserti a colori che ci mostrano le stesse città attraversate da Molly e Eduard come appaiono oggi, dimostrando che una storia così, un film così, oggi, sono ancora possibili. Cinema liberissimo, che crede ancora ciecamente nel potere salvifico delle immagini.