Alla soglia dei 75 anni, che festeggerà dopodomani, e dopo una carriera di oltre quarant’anni, con più di 20 film all’attivo (che gli hanno anche portato due Oscar, uno al Miglior Film Straniero per Tutto su mia madre e uno alla Miglior sceneggiatura originale per Parla con lei), Pedro Almodovar (in foto) ha vinto per la prima volta il massimo riconoscimento in un grande festival, aggiudicandosi il Leone d’oro con The Room Next Door, suo primo lungometraggio in lingua inglese (di cui abbiamo parlato qui), in cui una scrittrice (Julianne Moore) accompagna una fotografa di guerra e sua amica di vecchia data (Tilda Swinton), malata terminale e intenzionata a togliersi la vita, nell’ultimo viaggio della sua esistenza. La stampa italiana ha accolto questo premio in maniera globalmente positiva, a cominciare da Paolo Mereghetti, che aveva dichiarato che si sarebbe “incatenato davanti alla Sala Grande” se il film di Almodovar non avesse vinto. Nel consenso generale si è distinta la posizione molto schierata del quotidiano Avvenire, che ha lanciato una vera e propria campagna contro The Room Next Door: in vari articoli (ne linko uno qui per lettrici e lettori curiosi) i giornalisti di Avvenire hanno denunciato come “ideologica” la vittoria del film, definendolo uno “spot patinato per l’eutanasia”. E se, leggendo gli articoli in questione, ad apparire ideologico sembra più il partito preso della testata, fa quasi sorridere l’acrimonia con cui ci si scaglia contro un film di certo non destinato a segnare numeri incredibili al box office, come se il cinema, nel 2024, fosse ancora in grado di influenzare la società: speriamo che almeno su questo gli articolisti di Avvenire siano stati in qualche modo profetici.
Rimarchiamo, a margine, una tendenza che avevamo già segnalato lo scorso anno: negli ultimi nove anni, ben otto film che hanno vinto il Leone d’oro avevano una protagonista femminile (in questo caso ben due: Warner Bros ha annunciato che intende candidarle entrambe come attrici protagoniste in vista della stagione dei premi), mentre nei dodici anni precedenti il bilancio è di 10-2 per gli uomini.
Cercando invece di fare un discorso più globale, mi sembra che quest’ultima rassegna veneziana abbia risentito dello sciopero degli sceneggiatori e degli attori dello scorso anno. Tra i ventuno titoli in Concorso non c’era nemmeno un film Netflix, evento che non accadeva dal 2017 (con l’eccezione dell’anno pandemico 2020, in cui Netflix ha acquistato i diritti di distribuzione di Pieces of a woman dopo che questo era già stato presentato in concorso). In questi anni, la collaborazione pressoché esclusiva con il colosso dello streaming (che a Cannes, ricordiamo, non è bene accetto per il rifiuto di fare circolare ampiamente i film nelle sale prima di trasmetterli sulla piattaforma) aveva portato a Venezia film che avevano vinto molti premi e segnato fortemente la stagione cinematografica (Roma di Alfonso Cuaron, Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Il potere del cane di Jane Campion, e potremmo continuare a lungo). L’impressione è che quest’anno proprio Cannes sia riuscita a raccogliere i titoli statunitensi indipendenti (e quindi non affetti dallo sciopero al pari di quelli prodotti dalle major) più interessanti, con qualche eccezione (su tutte The Brutalist, di cui avevamo parlato qui, vera scommessa-cinema di questa edizione della rassegna veneziana), mentre Venezia abbia patito l’assenza (relativa) dei titoli delle più grandi case di produzione.
La situazione non è rosea purtroppo per i film italiani: dei cinque presentati in Concorso, solo Vermiglio di Maura Delpero (ne avevamo parlato qui) ha portato a casa un riconoscimento, ossia il Gran Premio della Giuria (una sorta di medaglia d’argento), che però non sta comunque consentendo al film, uscito il 19 settembre, una circolazione dignitosa nelle sale. Speriamo che il passaparola possa trasformare Vermiglio in un nuovo caso La chimera, portando la delicata opera seconda di Delpero di fronte a più spettatori possibile. Al di là del palmarès, infatti, il problema è che questi film non stanno avendo riscontri accettabili al botteghino. Se ci si poteva aspettare che film piccoli e con budget molto contenuti come l’acerbo Anywhere anytime, esordio di Milad Tangshir presentato alla Settimana della Critica che prova a reimmaginare Ladri di biciclette nella Torino di oggi, con protagonista un immigrato senegalese costretto per necessità a fare il rider, e il bellissimo Taxi Mon Amour di Ciro De Caro con una strepitosa Rosa Palasciano (in foto) co-sceneggiatrice e protagonista, che è arrivato il momento di riconoscere quale una delle migliori interpreti del nostro cinema, non avrebbero portato incassi significativi, il discorso non vale per dei “colossal nostrani” come Campo di battaglia di Gianni Amelio (ne avevamo parlato qui), arrivato al milione di euro risicato di incasso a fronte di un budget di 11 milioni: cifre queste ultime che si fanno emblema di un sistema drogato che troppo spesso ormai non riesce a trovare un pubblico a cui rivolgersi.
Questo numero di Happy Hour si chiude senza recensioni (ma di molti dei film passati a Venezia ed attualmente in sala avevamo parlato brevemente dal Lido). La newsletter riprende quindi la consueta cadenza bisettimanale, nell’attesa di un ottobre carico di uscite, compresa quella che attendiamo di più in assoluto: Megalopolis di Francis Ford Coppola, al cinema dal 16 ottobre, che avrà la sua anteprima nazionale il giorno prima alla Festa del Cinema di Roma.