Happy Hour #12: il compito delle giurie, Barbie e Oppenheimer
Proviamo a riflettere sul Leone d'Oro a Poor Things; in coda le recensioni dei film che hanno dominato la stagione estiva
Le giurie dei maggiori festival cinematografici, quelle che assegnano palme, leoni, orsi e leopardi destinati a creare dibattito culturale se non addirittura, nei casi più fortunati, tendenze cinematografiche, sono formate da un numero molto ristretto di persone, di solito intorno alla decina (a Venezia il mese scorso erano nove). Evidentemente dunque la componente soggettiva ed emotiva di ogni singolo membro ha un peso specifico molto alto nella composizione dei palmarés (dovremmo dire leonerés?): è nota ad esempio la grande commozione provata dalla Presidente di Giuria di Venezia dello scorso anno Julianne Moore alla proiezione del (bellissimo) documentario All the Beauty and the Bloodshed (in foto), che poi avrebbe vinto il Leone d’Oro. Ciò nonostante la rilevanza di questi premi fa sì che inevitabilmente un Leone o una Palma vadano a rappresentare anche qualcos’altro, a farsi specchio di un’epoca, a intercettare ed allo stesso tempo rappresentare lo “spirito del tempo”.
Al di là dei giudizi di pubblico e critica (va detto, pressoché unanimemente entusiasti), non sarebbe dunque un caso se Poor Things di Yorgos Lanthimos, Leone d’Oro di quest’anno, sia stato accostato a Barbie di Greta Gerwig, quanto piuttosto una dimostrazione dell’urgenza di un discorso (quello femminista, in senso ampio) nel contesto socio-culturale che stiamo vivendo. Analizzando anche solo superficialmente i film che hanno vinto il Leone d’Oro negli ultimi vent’anni, scopriamo che 11 hanno protagonisti maschili e 9 una protagonista femminile; se la statistica può far pensare ad un sostanziale equilibrio, notiamo però che negli ultimi otto anni (da The Woman Who Left, in foto, a oggi) ben 7 film che hanno vinto la statuetta avevano come protagonista una donna (unica eccezione il Joker interpretato da Joaquin Phoenix), mentre nei precedenti dodici anni il “punteggio” recita 10-2 per i maschietti, con uniche eccezioni la memorabile Vera Drake di Mike Leigh, interpretata da Imelda Staunton, e Tang Wei in Lussuria- Seduzione e tradimento, secondo (generoso) Leone d’Oro per Ang Lee.
La scommessa di Chazelle e soci è che Poor Things (in uscita nelle sale italiane il 24 Gennaio) oltre ad intercettare questioni centrali dell’oggi possa segnare un’epoca, magari partendo da una cavalcata trionfale nella prossima stagione dei premi; a dargli battaglia ci saranno senza dubbio Barbie e Oppenheimer, i film che hanno dominato l’estate a cui dedichiamo le due recensioni di oggi (in parte ampliamento di pensieri precedenti). Happy Hour torna fra due settimane; nel frattempo, Asteroid City e The Palace sono già in sala, e il 12 Ottobre arriva anche Dogman, una delle nostre folgorazioni dell’ultima Venezia: correte al cinema!
Barbie
di Greta Gerwig
Le Barbie vivono a Barbieland, città immaginaria colorata di rosa (circondata da colline con la scritta “BARBIELAND” disposta in modo molto simile a quella di Hollywood: ci torneremo) in cui vige un sistema matriarcale, e in cui gli uomini, i Ken, vivono solo per essere guardati dalle loro controparti femminili. Illuse dal loro esilio dorato, le abitanti di Barbieland sono convinte di aver contribuito all'emancipazione della donna nel nostro mondo: credono, cioè, di aver influenzato a tal punto l'immaginario da aver creato una ricaduta nel reale. Dopo varie peripezie, che includono un viaggio andata e ritorno nella “vera” America del 2023 ed una “battaglia al patriarcato” e si districano tra un melò madre-figlia che non decolla e un musical castrato, con un linguaggio studiatamente a metà tra il demenziale e il demente (come altro dovrebbe parlare Ken?), le protagoniste convincono i dirigenti della Mattel a produrre un nuovo modello di bambola: la “Barbie ordinaria”.
Detto in altri termini: Barbie-land (leggi: Hollywood) non riesce più (o forse non è “mai” riuscita) ad influenzare l'immaginario, tanto vale dunque accontentarsi di riprodurre il reale. Nel bene e nel male: da una parte Ken sceglie di instaurare un sistema patriarcale a Barbieland dopo la visita all'America di oggi, dall'altra il riscatto delle Barbie non avviene grazie ad una rivolta “dal basso”, bensì è scatenato dal discorso (tanto sincero quanto anticinematografico) di America Ferrera, dipendente della Mattel catapultata a Barbieland e cresciuta col mito di Barbie. Persino la scelta finale di Margot Robbie, novella Ladybird, di uscire dal Truman Show e trovare il suo posto nel mondo reale accettando la sua imperfezione (geniale l’inserto su come l’attrice non sia esattamente adatta ad impersonare questo messaggio) è condizionata dal dialogo con Ruth Handler (in foto), fondatrice della Mattel deceduta nel 2002 (condannata per frode e falso in bilancio).
Spendiamo due parole in più sul finale: credo che pochissimi si sarebbero aspettati che Barbie sarebbe finito nella sala d'attesa di uno studio ginecologico. Anche qui, il messaggio apparentemente è chiaro: mettere al centro il corpo a lungo negato (“non ho una vagina”, afferma Barbie nel film) e farne strumento di emancipazione e mezzo di rivendicazione di un'identità. Qualcosa però stride; per tutto il film infatti, la Gerwig non fa altro che negare alla sua protagonista una qualsiasi sessualità, sia nella non-relazione con Ken che nella mancanza di interesse anche verso le altre Barbie. A tal proposito, rimandiamo alla illuminata analisi di Roy Menarini sul suo canale YouTube, che azzarda una lettura di Barbie come primo grande film “asessuato” del cinema mainstream hollywoodiano.
Dietro dunque ad un femminismo (for dummies?) giustamente sbandierato e ad un “banale” messaggio à la Encanto, Barbie cela un sostrato teorico che abbraccia le contraddizioni in maniera tutt'altro che superficiale rappresentando la presa di coscienza di un ridimensionamento, una coloratissima resa del Cinema (al marketing ad esempio, vero capolavoro dietro a Barbie) che purtroppo non è sempre sostenuta da una messa in scena convincente, al di là dell'impressionante lavoro su costumi e scenografie, macchiandosi della colpa di non credere fino in fondo ai molti generi che contaminano il film.
Oppenheimer
di Christopher Nolan
Da The Prestige ad Inception fino ad Interstellar, passando per la trilogia di Batman, la filmografia di Christopher Nolan è costellata da figure di padri, da intendersi in senso letterale o figurato (come altro descrivere il rapporto tra Alfred e Bruce, o tra Batman e gli abitanti di Gotham?), che vivono in maniera contrastata il rapporto con i propri figli, ostacolati dalle circostanze e in buona sostanza dalla dedizione al proprio lavoro.
Oppenheimer è forse il padre (in senso letterale) peggiore della filmografia nolaniana, talmente incapace di sacrificare la propria carriera per gli affetti familiari da lasciare il figlio in “affido” mentre lui si dedica al progetto Manhattan; il vero rapporto di paternità che interessa a Nolan è infatti quello figurato, esplicitato sulla copertina di Time, che sotto la foto di J. Robert Oppenheimer reca la didascalia “Father of the Atomic Bomb”. Per tutta la prima parte del film assistiamo alla genesi (per accumulo: di dialoghi, di nozioni scientifiche, di scienziati, di attori, di immagini) di questo rapporto genitoriale, culminante col “parto” di Los Alamos il 15 luglio del 1945, evento che segnerà indelebilmente la vita di Oppenheimer (e la storia dell'umanità), rimanendo per sempre il suo più grande successo e la sua più grande colpa, contraddizione che gli occhi cerulei e i lineamenti affilati di Cillian Murphy riescono a rendere perfettamente anche senza bisogno delle parole.
Altro elemento comune alla filmografia nolaniana è la declinazione in varie forme del thriller, sia mediante sperimentazioni postmoderne col montaggio (Memento), che in forme più classiche (Insomnia) o visionarie (Inception), fino all'ibridazione con altri generi presente praticamente in tutti gli altri film, in ultimo il ripensamento del concetto stesso di suspense in Tenet, il più hitchcockiano e il più (ingiustamente) bistrattato dei film del britannico.
Anche Oppenheimer specie nell'ultimo atto, è un (legal-)thriller, quasi un JFK meno militante (Kennedy viene anche citato), seppure, come viene ripetuto sia ad Oppenheimer che a Lewis Strauss (un machiavellico Robert Downey Jr), quelli che stanno subendo non sono dei veri e propri processi: il primo viene interrogato da una commissione faziosa per il rinnovo di un nulla osta governativo, il secondo si sottopone ad un'audizione al Senato americano in attesa di una nomina a Ministro del Commercio data ormai per certa. Se l’ambizione più grande di Oppenhiemer è quella di raccontare un personaggio così controverso senza giudicarlo, è ancor più significativo che questo percorso impervio arrivi addirittura a contaminare lo stesso dispositivo filmico, trasformando un film biografico che aveva trovato la sua scena madre (il Trinity Test nel deserto del New Mexico) in un procedurale ricco di pathos e colpi di scena, il cui punto di arrivo non è un verdetto di colpevolezza ma una frase sussurata sulla riva di uno stagno.
Nolan dunque firma uno dei suoi film più maturi, un biopic contaminato, spurio e non convenzionale, tratteggia una delle figure più contrastate del Novecento con la dovuta complessità aiutandoci ad intuirne le sfumature (per forza doveva essere a colori, la storia/Storia vista da Oppenheimer, in quanto il giudizio su di lui, a differenza di quanto avviene con Strauss, non può limitarsi a una banale dicotomia giusto/sbagliato), trasformando, come si richiede al grande cinema, le sue inquietudini e i suoi fantasmi in immagini bellissime e terribili.