Happy Hour Speciale Venezia81 #6: l'ambizione dell'artista in The Brutalist
Il gigantesco film di Brady Corbet ruba la scena. Recensioni anche di I'm still here dal Brasile e The New Year That Never Came dalla Romania
Alla vigilia dell’inizio della Mostra, in un’intervista per il settimanale Film TV è stato domandato al direttore artistico Alberto Barbera per quale dei titoli selezionati a Venezia se la sentiva di scomodare il termine “capolavoro”: la risposta del direttore è stata The Brutalist di Brady Corbet, film presentato nella giornata di ieri, in cui ha ricevuto una standing ovation di 12 minuti che ha commosso il protagonista Adrien Brody (nella foto sul red carpet), nonché prima recensione di oggi.
Le altre recensioni sono dedicate a un esordio rumeno di Orizzonti, The New Year That Never Came (ma con un po’ più di coraggio potevamo vederlo in Concorso…) e al ritorno alla regia dopo dodici anni di Walter Salles (I diari della motocicletta) con I’m still here, storia (vera) di un illustre desaparecido durante la dittatura militare brasiliana.
The Brutalist
di Brady Corbet
Laszlo Toth, fittizio architetto ungherese di origine ebraiche formatosi alla Bauhaus, durante la seconda guerra mondiale fugge oltreoceano per scampare alle persecuzioni naziste, lasciando dietro di sé la moglie e la nipote, approdando a Ellis Island nella terra delle opportunità. La prima immagine dell'America che vediamo in The Brutalist è però uno dei suoi simboli più famosi, la statua della libertà, capovolta a testa in giù, prima dissonanza in cui è già in nuce una parte fondamentale del discorso del film. Il destino di Toth (Adrien Brody, in una parte che rende piena giustizia al suo talento) nel Nuovo Mondo è segnato dall'incontro col ricco e arido Van De Buren (Guy Pearce), che si offre di fargli da mecenate, per possedere con il denaro l'immortalità che solo l'arte può garantire. C'è tutto nella sconfinata magniloquenza (3 ore e 35 girate in pellicola VistaVision) del film di Corbet: il razzismo intrinseco ad ogni livello della società statunitense, l'influenza inestricabile e hanekiana della Storia sui destini degli individui (L'infanzia di un capo) e della tragedia sulla loro arte (Vox Lux), e le possibilità dell'Arte stessa, o almeno di quella che ha bisogno di committenti (come l'architettura, come il cinema) di scendere a compromessi pur di diventare realtà. Ma è nelle scene girate a Carrara, prese da uno dei film che Werner Herzog non ha mai girato, che The Brutalist raggiunge vette sublimi, capaci persino di rivaleggiare con la smisurata ambizione del suo protagonista.
I’m still here
di Walter Salles
Negli anni della dittatura militare in Brasile è sparito un numero altissimo di persone: la cifra riportata nel film è di ventimila. I’m still here racconta non tanto la storia di uno di questi, l’ex deputato Rubens Paiva, quanto di chi è rimasto: la famiglia di cinque figli e la moglie Eunice Paiva, a cui presta il volto scavato Fernanda Torres (che mette una seria ipoteca sulla Coppa Volpi). In uno dei suoi film più personali (da piccolo Salles conosceva Marcelo Paiva, il figlio minore della coppia, e frequentava la casa della famiglia Paiva) Salles opta per uno stile classico, in cui è il “cosa” a prevalere sul “come”, appoggiandosi sulla forza delle interpretazioni e su una sceneggiatura solida quanto convenzionale per non distrarre lo spettatore dal suo obiettivo: usare il cinema come monito affinché le nefandezze del passato non possano più ripetersi. In un Brasile reduce dalla presidenza Bolsonaro, non è affatto scontato.
The New Year That Never Came
di Bogdan Muresanu
È il dicembre del 1989 in Romania e il regime di Ceausescu ha i giorni contati, anche se ancora nessuno lo sa. In una Bucarest dilaniata dalla dittatura, in cui un cittadino su dieci fa parte della Securitate e uno su quattro è un delatore, si alternano vicende piccole di cittadini comuni apparentemente slegate tra loro: una signora anziana viene sloggiata dal suo palazzo che sta per essere demolito, due giovani scappano verso il confine, un ragazzino scrive frasi compromettenti in una lettera a Babbo Natale (anzi, Padre Gelo) e una troupe televisiva deve rigirare un messaggio di auguri di Natale per rimpiazzare un'attrice invisa al regime. Con un’abilità nella scrittura che ha del miracoloso, e che ricorda Una spiegazione per tutto di Gabor Reisz per la capacità impressionante di lavorare per accumulo di piccole situazioni, Muresanu dipinge un affresco corale su un mondo sull'orlo della disfatta, tessendo così le lodi di tutti gli “unsung heroes” che sono stati parte fondamentale di un momento decisivo della storia rumena. Esordio nel lungometraggio del regista, presentato nella sezione Orizzonti: meritava il Concorso.