Happy Hour Speciale Venezia81 #5: Campo di Battaglia, The Order e i gemelli Boukherma
Campo di battaglia di Gianni Amelio è il primo titolo italiano in concorso; recensioni anche di Leurs enfants apres eux dei gemelli Boukherma e The Order, con Jude Law
Inizia il Concorso anche per i film italiani: ad aprire le danze è il veterano Gianni Amelio, già vincitore del Leone d’oro nel 1999 con Così ridevano, che con Campo di battaglia trasporta Alessandro Borghi in un ospedale per soldati mutilati nella Prima Guerra Mondiale. Ne parliamo nella prima recensione di oggi. Le altre due recensioni riguardano altrettanti titoli in Concorso: The Order di Justin Kurzel, con Jude Law (in foto sul red carpet, in discreta forma) detective dell’FBI a caccia di una setta di suprematisti bianchi, e Leurs enfants après eux, racconto di formazione transalpino dei gemelli Boukherma, i più giovani tra i registi in Concorso. Oggi è il giorno del film che chi scrive attende maggiormente: The Brutalist di Brady Corbet, che verrà proiettato in 70 millimetri. Appuntamento a domani per la recensione.
Campo di battaglia
di Gianni Amelio
“1918, l’anno della vittoria”. Stefano, un ufficiale medico friulano (Alessandro Borghi, con un accento credibile) infligge di nascosto ferite invalidanti ai soldati ricoverati che non vogliono tornare al fronte. Un gesto di umanità in tempi complicati, o almeno così la vede lui. Il suo comandante non è d’accordo, perché “la guerra è un dovere”, e se scopre un soldato che si è automutilato lo rimanda a combattere, o peggio. L’Italia c’è ma non si vede, i feriti dell’ospedale parlano un crogiolo di dialetti e non si capiscono tra loro, la morte è costantemente in agguato. Funziona bene la prima parte di Campo di battaglia, galleria orrorifica di ferite del corpo e dell’anima, apologo accorato contro l’insensatezza delle guerre. Poi arriva la Spagnola, le cose si complicano e alla disperata ricerca di una cura si perde anche il film, incerto sulla direzione da prendere (praticamente abortita la sottile pista melò) dopo aver abbandonato i corridoi dell’ospedale.
The Order
di Justin Kurzel
La storia vera è quella di un gruppo di suprematisti bianchi capeggiati da Bob Matthews (qui un ottimo Nicholas Hoult) che, negli anni ‘80, progettava un escalation di violenza per prendere il controllo degli Stati Uniti. Sulle loro tracce abbiamo un agente dell’FBI (Jude Law) lontano dalla famiglia, lasciata fuori campo così a lungo che viene quasi il dubbio che non esista, aiutato da alcuni agenti della polizia locale. The Order è la storia di una caccia all’uomo, fatta di spettacolari rapine a banche o portavalori, sparatorie per le strade e assedi nei boschi, ma anche (ovviamente) dell’ossessione di un (true) detective, che cerca nella connessione con la natura (in un pericoloso dialogo con Il Cacciatore di Michael Cimino) la strada per fuggire ai suoi demoni. Kurzel ha l’intelligenza di mettere da parte il suo stile, nascondendosi nei meccanismi rodati del genere. Ne esce un film solidissimo, tesissimo, che grazie alla eccellente sceneggiatura di Zach Baylin (basata su un libro di Kevin Flynn e Gary Gerhardt del 1989) lascia scorgere, tra le pieghe della violenza radicata nelle piccole comunità che aspetta solo di essere fomentata, i ben più recenti fantasmi di Capitol Hill.
Leurs enfants après eux
di Ludovic e Zoran Boukherma
Adattamento di un omonimo caso lettererario (più di 400000 copie vendute nella sola Francia), Leurs enfants après eux racconta la crescita di Anthony, sedicenne nella cittadina francese di Heillange, scandita da quattro estati tra il 1992 e il 1998, tra una famiglia problematica (padre alcolizzato, madre succube), il primo amore e lo scontro con il rivale Hacine. Non siamo però dalle parti di un coming of age intimista alla Ozon o alla Kechiche: i fratelli Boukherma, reduci da un esordio horror a basso budget (Teddy) a metà strada tra Bruno Dumont e Un lupo mannaro americano a Londra, mirano all’affresco generazionale, fanno danzare la macchina da presa tra i personaggi alla ricerca di un punto di incontro impossibile tra Sergio Leone e Paul Thomas Anderson: purtroppo però a mancare sono sia l’epica decadente del primo che il dolente umanesimo corale del secondo. La narrazione segue le logiche della serialità (e lo diciamo in senso di semplice constatazione: non stupitevi se leggerete che il materiale “sarebbe stato perfetto per una miniserie in otto puntate”), tradendo a ogni piè sospinto la derivazione letteraria, e la scelta algoritmica (per quanto coerente col romanzo) di agghindare la colonna sonora con le hit più famose di quegli anni (ci sono tutte, da Dream on a Where is my mind?, passando per Springsteen, i Red Hot e i Metallica) si traduce in una fastidiosa sensazione da hit parade. Grande cinema popolare algoritmico, pronto per l’approdo sul catalogo di HBO Max (co-produce Warner).