Happy Hour #58: Il nuovo letteralismo, Dreams e A Different Man
I film stanno davvero diventando sempre più semplici?
In un articolo sul New Yorker intitolato “The New Literalism Plaguing Today’s Biggest Movies” la scrittrice e professoressa universitaria Namwali Serpell ha provato ad identificare un nuovo stile che starebbe contaminando molti dei film più dibattuti dei nostri tempi e, in particolare, molti dei candidati come Miglior Film nell’ultima edizione degli Academy Awards. Questa tendenza, che l’autrice definisce “New Literalism” (e potremmo tradurre letteralmente, appunto, con “Neo-Letteralismo” o “Nuovo Letteralismo”), consiste nel ribadire in maniera pedissequa e ridondante significati e intenti delle opere, sia attraverso le immagini che i dialoghi. A titolo di esempio, tra i tanti, l’autrice cita il dialogo di Emilia Perez tra Zoe Saldana e il medico che opererà il boss dei narco interpretato da Karla Sofia Gascòn (“I see, I see, I see. Man to woman, or woman to man?” “Man to woman.” “From penis to vagina.”), la citazione esplicita della fiaba di Cenerentola in Anora, l’immagine della Statua della Libertà capovolta con cui si apre The Brutalist, la scelta di Io sono ancora qui di usare il Super-8 per i filmini familiari della famiglia Paiva.
Per Serpell, gli artisti e il pubblico difenderebbero questa estrema leggibilità in quanto, “democraticamente”, permette di raggiungere un pubblico più ampio, mentre in realtà sarebbe solo una forma di accondiscendenza. Saremmo andati oltre la degradazione dell’arte a contenuto: secondo Serpell il contenuto è stato retrocesso a concetto, e il concetto è diventato un banner pubblicitario. Questo rumore di fondo sempre più forte non è limitato all’arte e trova ampia diffusione anche nella vita politica, e l’amministrazione Trump, tra negazionisti del covid e saluti romani, ne è un esempio lampante.
Pur non condividendo in toto né gli esempi portati a sostegno della tesi (Megalopolis, tra i film citati da Serpell, è tutto meno che un film eccessivamente leggibile o omologato a una qualsiasi tendenza contemporanea) né le eccezioni individuate dall’autrice (Conclave, ma davvero?), ritengo sia utile chiedersi se la semplificazione sia o meno una caratteristica del cinema contemporaneo (o almeno di una parte di esso). In un’epoca in cui le ambiguità sembrano pericolose e, da una parte e dall’altra, si richiedono a gran voce messaggi chiari e confermativi, acquistano vitale importanza quelle opere capaci di instillare nello spettatore un dubbio, di lasciarlo con delle domande senza pretendere di dargli tutte le risposte (penso a Giurato N. 2 di Clint Eastwood, a La Bete di Bonello, a Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese o a Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan).
Le due brevi recensioni di oggi sono dedicate a due film che lavorano sul dubbio e sull’ambiguità (anche morale), entrambi usciti nel mese di marzo, entrambi passati al Festival di Berlino, ossia Dreams di Dag Johan Haugerud, vincitore dell’Orso d’oro nel 2025, e A Different Man di Aaron Schimberg, che è valso al protagonista Sebastian Stan l’Orso d’argento nel 2024 e il Golden Globe come migliore attore protagonista.
Dreams
di Dag Johan Haugerud
Dell’amore sbocciato improvvisamente verso la sua insegnante di francese, la diciassettenne Johanne decide di farne un libro, sia per dare forma ai propri pensieri e poter rendere più concreti quei sogni destinati a rimanere tali, sia per poter toccare con mano un’emozione, per poter stringere vicino a sé il simulacro di un amore sognato, accarezzato e infine sfuggito via: dalla chiavetta contenente il file con il testo la ragazza non si separa (quasi) mai. Per la madre della ragazza, quella di Johanne è una storia di emancipazione femminista dalla forte componente queer, mentre per l’insegnante, che se questo film l’avesse girato Rohmer come settimo capitolo dei suoi Racconti Morali (chiara ispirazione di Haugerud) sarebbe stata l’inaffidabile voce narrante, poco più di una serie di fantasie spinte all’eccesso dalla fervida immaginazione di una ragazzina. Il punto forse non è chiedersi dove sia la verità, persa tra le nebbie di una Oslo che è vera co-protagonista del film, con cui Johanne si misura e si rispecchia, scoprendone le strade e i quartieri mentre scopre se stessa, quanto osservare come questa venga messa in secondo piano, piegata alle esigenze e agli schemi rigidi con cui i personaggi (anzi, gli adulti) interpretano la realtà, mentre la voce di Johanne descrive con rara precisione la sensazione unica e bruciante di un amore giovanile destinato a non concretizzarsi.
A Different Man
di Aaron Schimberg
In un condominio polanskiano di New York, devastato da vicini rumorosi e infiltrazioni di umidità, vive Edward, aspirante giovane attore affetto da neurofibromatosi di tipo 1, una malattia che gli provoca la crescita di tumori non cancerosi sul viso. Dopo essersi invaghito della bellissima Ingrid, drammaturga appena trasferitasi nell’appartamento accanto al suo, Edward decide di ricorrere ad una cura sperimentale per migliorare il proprio aspetto e di cambiare identità. Se l’incipit del film di Schimberg (che con il corpo non conforme di Adam Pearson aveva già lavorato nel precedente Chained for Life, al momento inedito in Italia) sembra costeggiare una visione burtoniana del “freak”, anche nella bella colonna sonora dell’italiano Umberto Smerilli che echeggia i suoni di Danny Elfmann, il merito di A Different Man è quello di sparigliare completamente le carte nella seconda parte, ponendo problematicamente e senza moralismi la questione attualissima della rappresentazione della diversità nell’arte contemporanea (A Different Man è anche un film sul teatro e sugli attori) senza rinunciare a improvvisi e perturbanti slanci horrorifici e abbracciando allegramente una esplicita dimensione metatestuale che ricorda, mutatis mutandis, un certo cinema di Charlie Kaufman.