Happy Hour #45: Giurato numero 2 e Anora
In sala la Palma d'Oro a Cannes e il nuovo film di Clint Eastwood
La newsletter di oggi è interamente dedicata alle recensioni di due film importanti: Anora di Sean Baker, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes di quest’anno, e Giurato numero 2, l’ultima fatica dello splendido 94enne Clint Eastwood, un film come non se ne fanno più per cui, eccezionalmente, ci sottraiamo alla logica delle stellette. In sala imperversano le uscite notevoli: oltre a Il Gladiatore 2 di Ridley Scott segnaliamo Do not expect too much from the end of the world di Radu Jude (che vince a mani basse il premio per il più bel titolo del 2024), nell’attesa di The Beast di Bertrand Bonello, in uscita giovedì, che ci aveva stregato alla Mostra del Cinema di Venezia dello scorso anno. Su alcuni di questi titoli ci ripromettiamo di tornare nei prossimi numeri di questa newsletter.
Giurato numero 2
di Clint Eastwood
C’è un momento di Giurato numero 2 in cui l’ultimo film di Clint Eastwood cita apertamente La parola ai giurati, il capolavoro di Sidney Lumet del 1957: la giuria popolare si è appena riunita per stabilire se James Sythe, ex galeotto, sia colpevole o meno dell’uccisione della fidanzata Kendall, trovata morta un anno prima, il giorno dopo che i due erano stati visti litigare furiosamente fuori da un pub. Tutti i giurati votano a favore della colpevolezza di James, tranne uno: Justin (nomen omen?) Kemp (Nicholas Hoult), futuro padre, che prende le parti che nel film di Lumet furono di Henry Fonda. Il giurato numero 8 del film del ‘57 era mosso però da un animo limpido e uno sguardo sgombro da pregiudizi, che gli consentivano di scorgere il ragionevole dubbio laddove gli altri membri della giuria vedevano prove schiaccianti. Justin è invece tormentato non dal desiderio di giustizia, quanto dal senso di colpa: quella notte, tornando a casa in auto dopo che sua moglie aveva perso il figlio che portava in grembo in una precedente gravidanza, Justin ha investito qualcosa o qualcuno, in Old Quarry Road. La procuratrice Faith (attenzione ai nomi…) Killebrew, interpretata da Toni Collette, interessata a far condannare Sythe per tornaconti politici, inizia intanto a dubitare della colpevolezza dell’uomo…
Per mettere in scena i chiaroscuri dell’animo umano Eastwood si affida a una regia di limpida essenzialità, a cui ormai basta un establishing shot per commuovere, come se la purezza dello stile (e del montaggio del sodale Joel Cox) sia l’unico modo per restituire le zone d’ombra degli esseri umani. Ed umanista, da sempre, è il cinema di Clint, che nelle istituzioni crede fino a un certo punto, pur senza rinnegarle (del resto, come viene detto nel film, “sono le migliori che abbiamo”), ma negli uomini e nelle donne, pur con tutte le loro imperfezioni, ripone una fede (Faith, di nuovo) che non può che lasciare commossi. Proprio Toni Collette in fondo si rivelerà, a sorpresa, la più eastwoodiana dei personaggi messi in scena, una donna che come Sully, come Chris Kyle, come Richard Jewell, come Eastwood stesso in The Mule e come mille altri personaggi di una galleria complessissima eppure incredibilmente coerente (e senza che Clint abbia mai firmato una singola riga di sceneggiatura) giunta al 42esimo ritratto, fa bene il proprio lavoro. Dopo un confronto con Justin al cospetto della statua di Dike, sintesi pittorica di tutto il film in una singola immagine potentissima, Faith dovrà mettere alla berlina le contraddizioni insite in un sistema che prima nega la verità, poi afferma assurdamente l’inadeguatezza del concetto stesso di giustizia.
È un film animato da una tensione morale elevatissima Giurato numero 2, che rifugge fordianamente la dicotomia bene-male per immergersi nelle complessità della realtà, restituendo un quadro forse più tetro di altre volte, in cui lo slancio di speranza, che comunque nel cinema di Clint non manca mai (nel finale di The Mule era un dolly che riusciva a far librare lo spirito al di là delle barriere del carcere, qui una nuova vita che si affaccia alle porte del mondo), è strozzato in gola da un ultimo campo/controcampo in cui non ci sono vincitori né vinti. Un gesto tanto semplice quanto straziante, che potrebbe essere la chiusura perfetta della carriera di uno dei più grandi registi della storia del cinema (che, mentre scriviamo queste righe, sta già lavorando al prossimo film).
Anora
di Sean Baker
Alla fiaba, e in particolare a Cenerentola, Sean Baker ci era già approdato con Tangerine (2015), la cui protagonista, una prostituta transessuale appena uscita di prigione, si chiamava appunto Sin-Dee Rella. Anche il film successivo, Un sogno chiamato Florida (2017), flirtava apertamente con una dimensione fiabesca, unica via di fuga per i bambini e le bambine del motel Magic Castle (nome anche questo non casuale), tanto da chiudersi a Disneyland, con immagini rubate riprese dalla fotocamera di uno smartphone. Anche quest’ultimo Anora, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, sembra inizialmente ricalcare la storia di Cenerentola: una ballerina ventitreenne di un night club, che si chiamerebbe Anora ma preferisce farsi chiamare Ani (e su questa dicotomia torneremo più avanti), incontra il giovane e ricchissimo Ivan, rampollo di una famiglia di oligarchi russi, che dopo settimane di frequentazione e di sesso (tutto a pagamento, si intende) decide di sposare Ani a Las Vegas. Le ire della famiglia di Ivan però non si fanno attendere, fino a trascinare i due sposini in un’esilarante odissea per le strade di New York che echeggia quella indimenticabile di Tutto in una notte.
La cifra principale di Anora è indiscutibilmente quella della commedia, e l’intelligenza di Sean Baker (anche sceneggiatore e montatore) è quella di attingere a più fonti, dallo slapstick ai dialoghi brillanti, da Una notte da leoni a Prima ti sposo, poi ti rovino, da John Landis a Billy Wilder (soprattutto nelle battute della stessa Ani, lucida e cinica come si confà ai personaggi della Gen Z), riuscendo a non giudicare i propri personaggi, evitando così di scadere in un banale moralismo.
Era forse inevitabile che uno dei migliori direttori di interpreti del cinema americano contemporaneo girasse prima o poi un film sulla recitazione: se già Red Rocket faceva dei passi in questo senso (il protagonista era un attore, seppure di film a luci rosse), Anora svela le sue carte sin dalla prima battuta del film, con cui Mikey Madison si presenta: “Ciao, sono Ani”. Non Anora, Ani. Prima e durante la relazione con Ivan, Anora sta dunque dichiaratamente interpretando un personaggio, eredità da una parte della sua vita lavorativa e scudo, dall’altra, verso un presente che se prima dell’incontro con Ivan poteva definirsi insoddisfacente, poi rimaneva comunque ammantato da un dubbio di fondo, una crepa invisibile nell’emotività di Anora che saggiamente Baker decide di lasciare nascosta per quasi tutto il film. E ora dobbiamo parlare del finale (spoiler da qui in avanti).
Anora e Igor, uno degli scagnozzi assoldati per farla divorziare da Ivan, si trovano soli in macchina nel mezzo di una tempesta di neve. Al momento di salutarsi, Igor, che non aveva nascosto di provare qualcosa verso la ragazza, ridà ad Anora la sua fede nuziale. Quest’ultima, che fino a quel momento aveva dimostrato una certa freddezza, decide di avvicinarsi ad Igor per iniziare un rapporto sessuale. Igor però, a differenza di Ivan, non è interessato ad Ani, ma ad Anora, e durante il rapporto prova ostinatamente a baciarla. Anora dapprima si sottrae, per poi abbracciare Igor ed irrompere in un pianto disperato su cui il film si chiude. Con un’abilità che è propria dei maestri, Baker riesce a condensare in una sola scena, e senza bisogno di parole, tutto il dramma sotterraneo di Anora, fin lì taciuto per lasciare spazio alla vena comica: lo scontro inconciliabile tra la dimensione pubblica (Ani) e quella privata (Anora). Il pianto di Mikey Madison è la presa di coscienza di un’attrice, Anora, che prende atto della morte del suo personaggio, Ani, e si domanda cosa sarà di lei dopo i titoli di coda: oppure, volendo, non è nient’altro che un ribaltamento tragico dell’ultima, leggendaria battuta di A qualcuno piace caldo.