Happy Hour #14: Killers of the Flower Moon e la nascita di una nazione
In sala in questi giorni l'ultimo film di Martin Scorsese, a cui questo numero è interamente dedicato
“Wyatt Earp died in Los Angeles in 1929. Among the pallbearers at his funeral, were early Western movie stars William S. Hart and Tom Mix. Tom Mix wept.”
Queste parole, pronunciate dalla voce cavernosa di Robert Mitchum, segnano il finale di Tombstone (in foto), western anni ‘90 incentrato sul leggendario pistolero Wyatt Earp, figura fondativa del West e del genere che più di tutti ha identificato il cinema americano nel corso del Novecento. La portata mitica di questa chiusura stride a dir poco con quella analoga di Killers of the Flower Moon (che infatti non è un western), mera constatazione della natura effimera dei ricordi e dell’impotenza della memoria in un Paese che ancora oggi è segnato da violenze indiscriminate nei confronti dei più deboli.
Dopo aver chiuso i conti con il gangster-movie, genere che più di tutti lo ha consegnato all’immaginario collettivo, con il funereo The Irishman, Scorsese passa da Netflix ad Apple+, che produrrà anche il suo prossimo lavoro (sono le piattaforme streaming, oggi, le uniche realtà in grado di garantirgli totale libertà creativa e budget pressoché illimitati), per raccontare una delle pagine più oscure della storia americana. Per l’occasione, il regista newyorkese riunisce i suoi due attori feticcio, firmando il sesto film con Leonardo DiCaprio e il decimo addirittura con Robert De Niro. La performance maiuscola di quest’ultimo dimostra ancora una volta l’incapacità della Hollywood degli ultimi vent’anni di trovare uno spazio per l’attore di Toro Scatenato e C’era una volta in America, dichiarato bollito anzitempo (va detto, a seguito anche di ruoli indifendibili come in Nonno Scatenato) ed invece ancora capace, dopo The Irishman, di tirare fuori una delle migliori prestazioni della carriera, dando vita ad un villain addirittura più temibile di quello di Cape Fear- Il promontorio della paura.
In mezzo a due mostri sacri di tale caratura risalta ancor di più la prova di Lily Gladstone (già vista in First Cow di Kelly Reichardt, tra gli altri), interprete di un personaggio complesso e di poche parole che riesce a lasciare il segno con la profondità degli sguardi e la forza dei silenzi. In un’intervista al The Hollywood Reporter, Gladstone ha rivelato che nell’agosto 2020, nel picco della pandemia da Covid-19, aveva esaurito i soldi sulla carta di credito e stava valutando di porre fine alla sua carriera recitativa, tanto che aveva intenzione di presentare domanda al Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti per studiare i percorsi migratori dei calabroni giganti asiatici (i più grandi del mondo), che in quell’estate stavano seminando il caos nel paese. A farle cambiare idea è stata una mail contenente una richiesta per una chiamata Zoom da parte di un certo Martin Scorsese…
Come avrete facilmente intuito, allo straordinario Killers of the Flower Moon è dedicata la recensione di oggi. In un periodo carico di uscite importanti, segnaliamo che attualmente è in sala anche Anatomia di una caduta, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes (dove il film di Scorsese è stato presentato in anteprima fuori concorso) di cui sicuramente parleremo nei prossimi numeri. Sabato 4 Novembre inoltre inizia il Festival dei Popoli, appuntamento imprescindibile dedicato al cinema documentario, di cui proveremo a fornire una copertura parziale già da lunedì prossimo.
Killers of the Flower Moon
di Martin Scorsese
Dopo averla fatta irrompere in maniera esplosiva nelle vicende dei protagonisti nel poderoso finale di Gangs of New York ed averne dato una versione distorta attraverso le lenti deformanti di Frank Sheeran in The Irishman, in Killers of the Flower Moon Martin Scorsese prende di petto la Storia americana, quella con la “S” maiuscola, da sempre fuoricampo decisivo del suo cinema, adattando l’omonimo romanzo-inchiesta di David Grann. Esiliati dal governo federale in una riserva rivelatasi piena zeppa di petrolio, gli indiani della tribù Osage sono tra i cittadini più ricchi della nazione, arrivando addirittura ad avere uomini bianchi alle proprie dipendenze. In questa comunità chiusa approda Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio, mai così brutto e stupido prima d’ora, con un ghigno alla Marlon Brando ne Il Padrino), reduce di guerra come Travis Bickle e Frank Sheeran, tornato a Fairfax alle dipendenze di suo zio William Hale (un mefistofelico Robert De Niro), “The King”, guida morale ed economica della cittadina. Lavorando come autista, Ernest si innamora e sposa la nativa osage Mollie (Lily Gladstone), erede di una grande fortuna petrolifera sulla quale Hale ha messo gli occhi da tempo (ma che anche ad Ernest non dispiace affatto: lui stesso afferma candidamente di essere “innamorato del denaro”); nel frattempo, una serie di omicidi e morti sospette sta decimando gli Osage, e la scia di sangue si stringe sempre più intorno alla famiglia di Mollie.
Nell’incedere inesorabile dei suoi 206 minuti di durata, sottolineati dalla presenza costante e sotterranea delle musiche di Robbie Robertson (scomparso ad agosto, a cui il film è dedicato) ed intervallati da improvvisi squarci di terribile violenza, Killers of the Flower Moon da una parte si insinua con pazienza nella comunità degli Osage, mostrandone tradizioni, riti e debolezze (l’alcol ovviamente, fornito dai bianchi senza scrupoli come nei western di John Ford ed Anthony Mann), e dall’altra tesse una complessa rete di relazioni tra i tre personaggi principali, in cui Mollie e Hale sono rispettivamente vittima e carnefice, mentre a DiCaprio è affidato un ruolo liminare carico di forti contraddizioni morali. Pur amando (probabilmente?) sua moglie, Ernest non riesce a fare a meno di seguire gli ordini di suo zio senza fare domande (è un soldato, del resto), arrivando persino ad avvelenare Mollie fin quasi a causarne la morte, unico errore che, non a caso, non sarà mai in grado di ammettere.
Mentre Hale dichiara di amare i nativi, di cui parla la lingua e conosce le tradizioni, e nell’ombra ordisce trame fatte di omicidi e inganni, continuando ad affermare come un mantra che il tempo degli Osage “è destinato a finire”, Ernest è così stupido ed accecato dall’avidità da non rendersi conto di essere lui stesso la confutazione del piano di suo zio, prova vivente che una coesistenza tra indiani e bianchi non basata sulla sopraffazione sarebbe possibile. La storia d’amore tra Ernest e Mollie anela al romanticismo di Giorni dal cielo di Malick, citato non a caso nella sua scena più cupa, ma di questo non può che ambire al ricordo lontano e sfumato, come una silhouette illuminata dal fuoco osservata attraverso un vetro troppo spesso.
Killers of the Flower Moon è dunque una storia di corruzione e sopruso, una nascita di una nazione all’insegna del sangue e della cupidigia, che non a caso echeggia a più riprese Il Petroliere di Paul Thomas Anderson e che poco ha a che fare con il western, mancandone le coordinate temporali (ci sono le macchine e non i cavalli) ed il senso della frontiera. In coda a questa anti-epica successione di “tragedie quotidiane”, è lo stesso regista, in un cameo, ad annunciare mestamente che Mollie è morta di diabete nel 1937, e che nessuno all’epoca fece menzione della spietata serie di omicidi che colpirono la sua famiglia (l’esatto contrario della chiosa mitopoietica di Tombstone, che celebrava la figura leggendaria di Wyatt Earp). “Tutti dimenticheranno”, affermava Hale nell’ultimo confronto con Ernest. Eccolo quindi il senso di Killers of the Flower Moon: il cinema come espiazione e memoria, una riflessione amarissima suggellata da una carrellata all’indietro in plongée che inquadra una danza che disegna cerchi concentrici come ne I cancelli del cielo di Michael Cimino, altro grande affresco (quello sì, western) sulle radici del sogno(/incubo) americano.