Happy Hour #36: Kinds of Kindness e Twixt
Il ritorno di Lanthimos in sala e l'arrivo, dopo 11 anni, del penultimo film di Coppola (su Rai Play), in attesa di Megalopolis
A pochissimi mesi dall’uscita di Povere creature!, che gli era valso il Leone d’Oro ed il plauso più o meno unanime della critica italiana ed internazionale (ne avevamo scritto qui, in termini non entusiastici), il regista greco Yorgos Lanthimos è di nuovo nei cinema italiani, e di nuovo al fianco di Emma Stone, con Kinds of Kindness, film a episodi dalla durata maxi (2 ore e 45 minuti) presentato a Cannes, che ha diviso la critica italiana (che lo ha in larga parte stroncato, ad esempio qui) e che difficilmente vedremo protagonista della prossima stagione dei premi americani (mentre a Cannes, appena due settimane fa, è valso la Palma al migliore attore a Jesse Plemons). Al film è dedicata la prima recensione di oggi.
Le vie della distribuzione sono infinite: non dovrebbe dunque sorprenderci (troppo?) che, a 13 anni di distanza dalla sua presentazione al Toronto Film Festival, sia finalmente arrivato in Italia Twixt, (pen)ultima fatica di Francis Ford Coppola, in attesa di quel Megalopolis che ha spaccato la critica a Cannes e che in Italia verrà distribuito da Eagles Pictures (mentre negli Stati Uniti ancora non si hanno notizie di una distribuzione). A questo horror sui generis, disponibile gratuitamente su RaiPlay in versione originale sottotitolata, è dedicata la seconda recensione di oggi.
Con l’estate che si avvicina e i cinema che agonizzano, dopo un maggio terribile dal punto di vista degli incassi (più bassi non solo dello scorso anno, ma addirittura del terribile 2022) le speranze degli esercenti per questo giugno sono tutte concentrate su Inside Out 2 della Pixar, in uscita mercoledì. Non mancano tuttavia le uscite di qualità anche questo mese: sono appena arrivati nelle sale Il regno animale, uno dei casi cinematografici dell’anno in Francia, e Empire, l’assurda rivisitazione di Star Wars firmata Bruno Dumont e premiata a Berlino, e sono attesi due titoli dal concorso cannense dello scorso anno (Racconto di due stagioni di Nuri Bilge Ceylan, in uscita il 20, e Quattro figlie di Kaouther Ben Hania, il 27), oltre alla commedia brillante di Richard Linklater Hit Man - Killer per caso (anche questa in uscita il 27). L’appuntamento è a fra due settimane per parlare di alcuni di questi titoli, e magari per un resoconto dal Cinema Ritrovato di Bologna, il più importante festival di restauri al mondo, dedicato al cinema del passato, che tra la retrospettiva su Marlene Dietrich, quella su Anatole Litvak e decine e decine di titoli da (ri)scoprire promette anche quest’anno grandissimo cinema.
Kinds of kindness
di Yorgos Lanthimos
Nel primo episodio, che sembra una variazione sul tema di Alps, c’è Robert (Jesse Plemons), un impiegato la cui vita è controllata sin nei minimi dettagli da Raymond (Willem Dafoe), il suo datore di lavoro (o, volendo, il suo regista), che gli ordina quando alzarsi la mattina, cosa leggere la sera (Anna Karenina) e quando fare l’amore con sua moglie (con la quale però, sempre per ordine di Raymond, non può avere figli). In cambio, Raymond regala a Robert dei cimeli sportivi particolari: una racchetta rotta da John McEnroe nel 1984, il casco indossato da Ayrton Senna il giorno dell’incidente che gli costò la vita, le scarpe con cui Michael Jordan siglò una prestazione monstre ai playoff del 1986. Un giorno, Raymond ordina a Robert di uccidere un uomo, R.M.F. (consapevole, quest’ultimo, di rischiare la vita e pagato per morire), ma Robert si rifiuta. Dopo essere stato lasciato dalla moglie, Robert si imbatte nell’affascinante Rita (Emma Stone), che casualmente ha da poco finito di leggere Anna Karenina…
Poi c’è Daniel (sempre Jesse Plemons), un poliziotto, che quando la moglie Liz (Emma Stone, di nuovo) viene salvata da un naufragio su un’isola deserta si convince che la persona che sembra somigliare in tutto e per tutto alla moglie sia in realtà un’impostora. Daniel allora inizia ad avanzare richieste assurde alla moglie, come a richiederle una continua prova di sottomissione che porterà a tragiche conseguenze.
Infine c’è Emily (indovinate…già, Emma Stone), adepta di una setta capeggiata da Omi (Willem Dafoe, che giace con i suoi cultisti, uomini e donne) che ha lasciato la sua famiglia per andare alla ricerca di una ragazza (Margaret Qualley, che nel primo episodio è la moglie di Raymond, e nel secondo un’amica di Daniel e Liz) che sarebbe in grado di resuscitare i morti.
Dopo due film più commerciali, che gli sono valsi buoni riscontri di pubblico e critica (La Favorita e Povere creature!), Lanthimos torna a collaborare con il suo sceneggiatore storico Efthymos Philippou, lo stesso dei primi film greci, e lo fa in un film a episodi che è allo stesso tempo un ritorno alle dinamiche del suo cinema dei primi tempi (più cupo, disperato e misantropo, lontano dai compromessi “pop” delle ultime due opere, con un uso meno esasperato dei grandangoli) e la consacrazione di sodalizi più recenti: quelli con il direttore della fotografia Robbie Ryan (che gira in un grigio 35 millimetri), con il compositore Jerskin Fendrix (che cita il Ligety già usato da Kubrick in Eyes Wide Shut, a cui il riferimento è abbastanza palese in tutti e tre gli episodi) e soprattutto con Emma Stone, capace di infondere complessità e sfumature a personaggi femminili complicati, vittime e carnefici allucinati in un mondo allo sbando da cui non esiste possibilità di fuga (e in cui però, e questa forse è la differenza più grande con i film greci del primo periodo, oltre che uno dei meriti di Stone, c’è anche spazio per l’ironia).
I tre episodi di Kinds of Kindness sono legati da elementi sia di trama (il personaggio di R.M.F., che ritorna, dando sul finale l’impressione di aver assistito ad un loop destinato a reiterarsi indefinitamente, e l’elemento della ripetizione del resto era chiaro sin dal titolo del film, non altro che un’ironica allitterazione) che di ambientazione (le macchine dal bizzarro design che compaiono in tutti i segmenti) e, ovviamente, tematici. Se nel primo episodio abbiamo un datore di lavoro che programma fino ai più piccoli dettagli la vita di un suo sottoposto, nel secondo c’è un marito paranoico che esercita violenza psicologica nei confronti della moglie, ed infine compare una donna che, pur di assecondare i voleri del guru di una setta religiosa, abbandona la famiglia e il lavoro per dedicarsi anima e corpo al nuovo credo. Siamo di fronte quindi a tre forme diverse di controllo, a tre personaggi la cui esistenza è interamente modellata sulla vita professionale (Robert), su quella familiare (Liz) e su quella spirituale (Emily).
In una realtà eterodiretta dunque sembra che il sogno possa (?) configurarsi come l’unica forma di salvezza alla quale aggrapparsi: Lanthimos (e Philippou) però sembra(no) pensarla diversamente, ed ecco quindi che nei tre episodi i sogni (altra costante che unisce le tre sezioni) più che una parentesi salvifica in cui rifugiarsi sono piuttosto un raro momento di lucidità, in cui prendere coscienza di un presente castrante (e assurdo, si pensi ai cani del secondo episodio, che ritornano dopo The Lobster in vesti decisamente meno tragiche) da cui però nessuna fuga sembra essere né pensabile né tantomeno possibile. Ecco dunque spiegato il significato, o meglio, un significato possibile, in un film ben più oscuro dei due precedenti, e quindi anche più aperto a vari approcci interpretativi, dei cimeli sportivi del primo episodio: non sono semplicemente testimonianze di momenti di sport memorabili e passati alla storia, quanto piuttosto la prova tangibile di quando una persona (un atleta, o se vogliamo un attore) è andata oltre quelle che erano le regole a lui imposte o le aspettative che su di lui erano riposte ed ha compiuto qualcosa di realmente stra-ordinario e non previsto, quand’anche terribile e irrimediabile (come, nel caso di Senna, la propria morte). Nel mondo grigio, asservito (letteralmente) al lavoro e rigidamente programmato di Robert, dunque, quei cimeli, pagati, supponiamo, a caro prezzo, e quindi comunque ridotti a merce, sono l’unico spiraglio possibile a cui aggrapparsi, l’unica testimonianza della possibilità di rompere uno schema a cui non sembra pensabile sottrarsi.
Twixt
di Francis Ford Coppola
Per tredici anni, cioè fino alla presentazione al Festival di Cannes di quest’anno di Megalopolis, Twixt è stato “l’ultimo film di Francis Ford Coppola”. Questo non è bastato però a garantire al film un’uscita italiana, complice anche la sfiducia dei distributori internazionali, e nel nostro Paese il film era rimasto fino ad oggi inedito (fatta salvo la proiezione al Torino Film Festival del 2011, diretto allora da Gianni Amelio), per poi arrivare su Rai Play (e su Rai Tre, con Fuori Orario) grazie a Movies Inspired.
Le vicende di Twixt ruotano attorno ad Hall Baltimore (Val Kilmer), scrittore di horror di serie B in declino, che dopo un firmacopie in un ferramenta si ferma a dormire nel paesino di Swann Valley, dominato dall’alto da una torre ettagonale, con sette orologi sulla cima, in un albergo che fu dimora di Edgar Allan Poe. Introdotto dal bizzarro sceriffo con velleità di scrittore Bobby LaGrange (Bruce Dern, che sembra uscito direttamente da I misteri di Twin Peaks) ai misteri della cittadina, che includono un gruppo di punkabbestia che dimora sulla riva del lago e una serie di omicidi e sparizioni per cui manca un colpevole, Baltimore decide di tuffarsi nelle nebbie della città (e su un lago nella nebbia, non a caso, iniziano tutti i romanzi di John) nella speranza di ritrovare l’ispirazione perduta.
Se quindi Twixt mette al centro un artista in crisi, d’altra parte l’identificazione di Coppola con il suo protagonista non è da cercarsi nell’aspetto creativo, bensì in quello personale. Caratterizzato da un uso del 3D che purtroppo dalla visione in TV abbiamo solo potuto intuire, e dalla fotografia contrastatissima di Mihai Malaimare Jr. (lo stesso di The Master di Paul Thomas Anderson, per capirci), che alterna colore e bianco e nero, Twixt è infatti attraversato da un susseguirsi ineasuasto di invenzioni che trovano la loro massima espressione nelle mirabolanti sequenze oniriche, in cui compare un fantasma interpretato da Elle Fanning, che sembra anticipare il proprio personaggio che l’attrice interpreterà in The Neon Demon di Refn cinque anni dopo. La messa in scena dell’inconscio è anche la porta attraverso cui Coppola fa entrare in Twixt le sue ossessioni, trasformandolo di fatto in ciò che realmente voleva realizzare: un personalissimo e doloroso film sulla perdita. Nel fantasma interpretato da Fanning, Baltimore rivede la figlia, scomparsa anni prima in un incidente in barca sul lago come Gian Carlo Coppola, morto nel 1986 in circostanze simili. Twixt è quindi, in definitiva, una commovente seduta di auto-analisi, una lotta disperata contro un tempo indecifrabile e prismatico (i sette orologi della torre segnano tutti ore diverse) alla ricerca disperata (e grottesca, e ridicola addirittura) di un attimo in cui Baltimore (e Coppola) non riescono a perdonarsi di non esserci stati. Con la consapevolezza (“You can’t change time. Time changes you.”) di trovarsi di fronte ad un’impresa titanica, impossibile: l’unica, cioè, in cui valga la pena imbarcarsi, per l’ultimo titano del cinema contemporaneo.