Happy Hour #26: Povere creature!, Charlie Kaufman e il box office italiano
Il film del momento è in sala, e può superare Il ragazzo e l'airone come miglior incasso di questo inizio di 2024. Su Netflix arriva Orion e il Buio, nuovo script dell'autore americano
Nel momento in cui scrivo questa introduzione, Povere creature! è vicino a superare Il ragazzo e l’airone e a diventare il primo incasso dell’anno (solare) in Italia. Se da una parte il trionfo inaspettato di questi titoli (specie del film di Miyazaki, impronosticabile a questi livelli) e di Perfect Days di Wim Wenders (ad ora vicino ai 5 milioni) è dovuto ad una mancanza di prodotto “forte”, soprattutto americano, causata a sua volta dagli strascichi dello sciopero di attori e sceneggiatori, mi sembra anche innegabile notare che, da dopo l’estate (e quindi dopo Barbie e Oppenheimer) in Italia si respiri un’aria diversa intorno ai film.
Fondamentale è stato anche il successo strepitoso di C’è ancora domani di Paola Cortellesi, ancora regolarmente nella top ten giornaliera degli incassi ad oltre tre mesi dall’uscita (roba che manco Avatar: La via dell’acqua). Fatto sta che mi sembra che i film abbiano riacquistato un certo ruolo nel dibattito culturale e nelle abitudini degli italiani (cosa che, nel periodo post-pandemico, avevano completamente perso: i dati degli incassi parlano chiaro). Certo, parliamo sempre di un ruolo ancillare, quello di un’arte che indiscutibilmente, nel lungo periodo, sta perdendo centralità; cionondimeno, mi pare ci siano segnali incoraggianti.
Le recensioni di oggi sono dedicate all’attesissimo Povere creature! (che, devo segnalare, sta convincendo quasi unanimemente la critica italiana) e a Orion e il buio, film di animazione su Netflix scritto da Charlie Kaufman, uno dei più geniali sceneggiatori degli ultimi trent’anni, autore di opere geniali come Se mi lasci ti cancello (scritto da lui e diretto da Gondry), Synecdoche New York, Sto pensando di finirla qui e altri capolavori. Questa settimana esce l’attesissimo Past Lives, esordio di Celine Song (a più di un anno dall’esordio al Sundance) e la settimana prossima La zona di interesse di Jonathan Glazer. Entrambi i film hanno nomination molto forti ai prossimi Premi Oscar, e il film di Glazer probabilmente strapperà l’Oscar al Miglior Film Internazionale ad Io Capitano di Matteo Garrone. Corriamo al cinema!
Orion e il buio
di Sean Charmatz
Non è facile stabilire quanto dell’apporto di Charlie Kaufman alla sceneggiatura di Orion e il buio sia sopravvissuto alle maglie della produzione Netflix; certo è che il film di Sean Charmatz mantiene molte delle vibrazioni tipiche degli script del suo autore, che per la prima volta dal 2004 (Se mi lasci ti cancello) firma una sceneggiatura di un film di cui non è il regista, adattando l’omonimo libro illustrato di Emma Yarlett (copertina nell’immagine qui sotto).
Già, perché la storia di Orion, bambino con mille fobie (e quindi già personaggio tipicamente kaufmaniano) che gli impediscono di dichiararsi a Sally, sua compagna di scuola, e del suo incontro con Buio (Dark in originale), impersonificazione dell’oscurità introdotta da un mini-documentario narrato da Werner Herzog, nientemeno, si rivela presto essere anche la confessione di un narratore in crisi che non sa come terminare la sua storia. In un gioco di specchi tipico della filmografia di Kaufman (scritta, vedi Il ladro di orchidee, o anche diretta, come in Synecdoche New York), il protagonista della vicenda ne è anche l’autore, che ancora una volta rimane incastrato in una storia che non sa come portare a termine.
Prima che la narrazione si areni sul dorso di una gigantesca tartaruga volante (!), Orion e il buio ha molte carte da giocare, dagli esilaranti siparietti con le Entità Notturne (Sonno e Insonnia forse le più spassose) alla relazione credibile e commovente tra Orion e Buio, motore di tutta la vicenda. Ma è nel rimbalzo tra le varie cornici narrative che il film acquisisce una marcia in più: quella che poteva essere un semplice (per quanto edificante e spettacolare, forse fin troppo ritmato) racconto di formazione sulla necessità di superare le proprie paure per poter apprezzare le bellezze della vita diventa (anche) l’occasione di uno scambio generazionale, in cui i giovani vengono in soccorso dei “vecchi” (narratori), con un pizzico di naiveté e lanciandosi senza paura nell’improvvisazione (“Everything we do in life is improvisation”, ha detto Kaufman in un’intervista al New Yorker di qualche anno fa).
E se crisi è la parola chiave per (tentare di) decifrare il cinema-psicanalisi di Kaufman, in Orion e il Buio, anche per ragioni di target (è pur sempre (anche) un film per bambini), per una volta nel finale si può guardare il cielo con speranza, consapevoli che per godere della luce del mattino occorre affrontare il Buio della notte: in fin dei conti, è un gran simpaticone.
Povere creature!
di Yorgos Lanthimos
A venti minuti dalla fine di Povere creature! (e dunque, è bene ricordarlo, dopo quasi due ore di film) per la prima (e unica) volta Bella Baxter è in pericolo. Il suo ex-marito Alfred Blessington ha infatti intenzione di consegnarla ad un medico per sottoporla a una mutilazione genitale. Dopo aver tentato (inutilmente) di fuggire dalla magione di Blessington, Bella e il suo sposo hanno un confronto in sala da pranzo che può essere potenzialmente fatale: Alfie infatti si è presentato all’appuntamento con una pistola.
Per la prima volta, cioè, lo spettatore è preoccupato per le sorti della sua eroina, che fin qui aveva navigato in acque se non placide quanto meno non abbastanza mosse per metterne alla prova lo spirito intraprendente: è un momento cruciale della storia. Ci si aspetterebbe quindi che un regista come Lanthimos, che in passato aveva saputo dare il giusto risalto ai punti focali della narrazione (si pensi su tutte alla memorabile scena del fucile nel finale de Il sacrificio del cervo sacro), dia il risalto che merita ad uno snodo fondamentale: macché. Quando Alfie tira fuori la pistola e punta la sua sposa (Lanthimos inquadra i due in campo lungo, per mostrare la distanza esigua che separa i personaggi), Bella gli dice che preferirebbe essere uccisa piuttosto che continuare a vivere con lui (“I’d rather be shot in the fucking heart”), dopodiché percorre i pochi metri che la dividono dal suo carceriere, andando incontro ad una morte probabile. Alfie abbassa l’arma, sentendosi vincitore, e con l’altra mano le allunga un bicchiere (“gin e cloroformio”, dice). La scena è composta da un succedersi di inquadrature dal basso, in un alternarsi di campi e controcampi sui due attori; la mano che imbraccia l’arma è coperta dal corpo di Alfred, che dà il profilo sinistro alla macchina da presa. Quindi, nel momento in cui Bella svuota il bicchiere in faccia al suo (ex-)sposo e parte un colpo che ferisce Alfie sul piede, noi spettatori non possiamo capire bene cosa sia successo. In un batter d’occhio, Bella recupera l’arma (e qui ripartono gli zoom all’indietro che, insieme ai grandangoli esasperati già visti in La Favorita, hanno caratterizzato tutto il film), fa qualche passo indietro e tiene a tiro il suo carceriere (ora Lanthimos inquadra i due nuovamente in campo lungo).
Nel giro di un paio di minuti la situazione si è completamente ribaltata: suspense? Neanche l’ombra: anche in una scena così dirimente, Lanthimos ha preferito rifugiarsi nella sua ingombrante forma. Anzi, si ha quasi la sensazione che Bella non sia mai stata realmente in pericolo. Forse il punto è proprio questo. Nel percorso di crescita/scoperta della protagonista, corpo di donna e cervello di neonato (anzi, di non-nato), Bella (nomen omen) fa esperienza del mondo che la circonda prima attraverso il sesso (il film passa dal bianco e nero al colore durante il primo amplesso), vissuto con l’entusiasmo che un bambino potrebbe avere per la cioccolata, senza complessi inibitori o filtri sociali, e poi attraverso la conoscenza (il marxismo fin troppo annacquato conosciuto in crociera), diventando consapevole delle ingiustizie che la circondano e mostrandosi disposta a tutto pur di cambiarle.
Il favolistico mondo di Bella Baxter, va detto, ha apparentemente poco a che fare con il nostro: i cieli sono dipinti di colori irreali, ultrasaturi, che variano dall’arancio più acceso al blu oceano, improbabili navicelle pullulano gli skyline delle città e la casa del padre/creatore Godwin (uno strepitoso Willem Dafoe, che si diverte a fare Dio- God, appunto) è pololata da bizzarri incroci dei classici animali da cortile. La costante, ovviamente, è di tipo sociale: lì come qui, i più forti prevaricano i più deboli e, più segnatamente, l’uomo esercita la sua violenza sulle donne. La parata di personaggi maschili in cui Bella si imbatte, fatta forse eccezione per Godwin (che però è un’altra povera creatura, simile nelle fattezze a quella del Frankenstein di Mary Shelley), è desolante: il servile MacCandles, il macchiettistico Duncan Wedderburn (un Mark Ruffalo in costante overacting) e il perfido Alfred Blessington sono delle maschere patetiche, incapaci di costituire un ostacolo credibile all’incedere della protagonista. E anche se l’approccio gioioso alla sessualità di Povere Creature! è senz’altro una delle note più positive e meno conformi del film, questo affossa ulteriormente una dimensione problematica data appunto dal fatto che Bella, soprattutto all’inizio, è in effetti “una bambina”.
Quello che insomma contesto ad un’opera dagli indiscussi valori tecnici (ancora, le incredibili musiche di Jerskin Fendrix, alla prima di quella che speriamo diventi una lunga serie di colonne sonore) e recitativi (Emma Stone ancora una volta si dimostra una delle migliori attrici della sua generazione) è, oltre ad una diffusa fragilità narrativa (la sensazione di “ripetizione” nelle sequenza nel bordello parigino) una mancanza di problematicità. Quella che, per dire, faceva capolino in Barbie, altro percorso di scoperta di una donna chiusa in un mondo troppo piccolo, in cui il sesso (inteso come organo) era il punto non di partenza ma di arrivo (il film finiva nello studio di un ginecologo), quando la situazione ristagnante di Margot Robbie veniva risolta da un’improbabile deus ex-machina: un lieto fine talmente artificiale da essere palesemente irreale. Avete mai visto invece qualcosa di più naturale di una capretta che bruca l’erba in un prato?