Happy Hour #33: Civil War e il Far East Film Festival
Cartoline dal più importante festival di cinema orientale d'Europa e la recensione dell'ultimo film di Alex Garland
C’è un momento alla fine di Their Last Love Affair, misconosciuto capolavoro del 1996 (in foto) del misconosciuto a sua volta Lee Myung-se, in cui il film si prende una pausa e, per la prima volta, un istante prima dei titoli di coda, acquisisce coscienza di sé. Lo spettatore, che fino a quel momento si è trovato a interrogarsi (struggendosi, magari) sul destino di un amore tanto trascinante quanto sfuggente, si trova dunque a spostare la sua attenzione sull’oggetto filmico in quanto tale, chiedendosi per un istante non cos’è l’amore?, bensì cos’è il cinema? Ma si tratta davvero di due domande diverse? In un Q&A successivo alla proiezione del film (appena restaurato) alla 26esima edizione del Far East Film Festival, il più importante festival europeo di cinema orientale che si tiene (e questo forse sorprenderà alcuni lettori e alcune lettrici) dal 1998 a Udine, una spettatrice ha chiesto al regista Lee Myung-se se in questi anni avesse trovato una risposta alla domanda what cinema is? Il regista sudcoreano, 67 anni ad agosto, ha risposto (in coreano) con un’affermazione sibillina: if you can explain the Tao, then it’s not the Tao anymore.
Tra le tante suggestioni che mi porto dietro dagli ultimi giorni trascorsi a Udine (il festival prosegue fino al 2 maggio, e gli ultimi giorni arriverà l’ospite d’onore Zhang Yimou, premiato col Gelso d’Oro alla Carriera), ho scelto di condividere per prima questa risposta affascinante di un regista a cui il tempo non sta tributando la stessa fortuna riservata ai suoi connazionali Park Chan-wook, Bong Joon-oh e Kim Jee-won. Nelle righe che seguiranno cercherò di ripercorrere brevemente le visioni principali di questi giorni di festival, raggruppando per nazione di provenienza i vari film, sia quelli in Concorso (tutte anteprime europee o internazionali, cioè fuori dal proprio paese di produzione) che i film restaurati del Fuori Concorso. Restano fuori le Filippine di Lino Brocka, regista innanzitutto di Manila in the Claws of Light, capolavoro del 1975 selezionato lo scorso anno da Lav Diaz alla Berlinale in una retrospettiva dedicata alla giovinezza, e di White Slavery del 1985 (nell’immagine qui sotto), il cui restauro è stato presentato quest’anno a Udine. Se il primo film racconta la storia di un giovane che dalle campagne si trasferisce a Manila alla ricerca della fidanzata, White Slavery ne riporta il controcampo femminile, concentrandosi su tre ragazze di provincia che si spostano nella capitale in cerca di fortuna, trovando invece solo violenza e sfruttamento: un (duplice) ritratto spietato di un mondo che sembra senza speranza.
Cina
Oltre al notevole Dislocation (Jianxin Huang, 1986, nell’immagine qui sotto), commedia fantascientifica su un alto dirigente della burocrazia cinese che, per evitare di partecipare a noiosissime riunioni crea un cyborg a sua immagine e somiglianza per presenziare al posto suo, i due film cinesi visti in Concorso (ma ce ne sono molti di più) sono risultati più interessanti dal punto di vista socio-politico che da quello cinematografico. In Moscow Mission dell'hongkonghese Herman Yau non bisogna scavare troppo in profondità per inquadrare una storia di collaborazione tra la polizia cinese e quella russa per catturare un gruppo di rapinatori nel contesto geopolitico attuale. Al di là dell’aspetto propagandistico, la scarsa spettacolarità delle (numerose) esplosioni e l’implausibilità dell’intreccio rendono difficile anche un divertimento “spensierato”. Certo, fa un po’ di tristezza, per quanto sia umanamente comprensibile, vedere un regista e un grande attore di Hong Kong (l’attore è Andy Lau, che interpreta uno dei criminali) prestarsi a un’operazione di questo tipo. Vorrebbe invece essere una serissima lode della stampa indipendente Trending Topic, confusissimo thriller giornalistico in cui una direttrice di un giornale online prima attacca una ragazzina colpevole, parrebbe, di bullismo verso le compagne, poi, dopo rivelazioni incredibili, si rivolge contro un grande industriale e stupratore seriale di minori, nonché finanziatore del suo giornale. La sceneggiatura purtroppo è molto problematica ed il film è implausibile dal primo all'ultimo minuto, per tacere ovviamente dei problemi ideologici che si porta dietro: i giornalisti indipendenti in Cina pagano spesso col carcere il loro coraggio. Piccola nota a margine: di questi tre film, l’unico pungente e caustico nei confronti del regime è proprio Dislocation, girato tre anni prima di Piazza Tien’ammen: un film così, secondo giornalisti del settore, oggi, in Cina, non si potrebbe fare.
Hong Kong
Cosa è rimasto di quello che negli anni '90 era il cinema più bello del mondo, capace di spaziare dall'azione pura di John Woo ai meló raffinati di Wong Kar Wai (a proposito, rumor raccontano della sua nuova serie uscita a fine 2023 in Cina, The Blossoms of Shanghai, in fase di sottotitolaggio e alla ricerca di una piattaforma…), passando per Johnnie To, Fruit Chan e tutti gli altri? L'handover del 1997 e le dure repressioni cinesi delle proteste degli ultimi anni stanno avendo ripercussioni anche sul cinema a Hong Kong, e l'ambientazione di The Goldfinger (Felix Chong, 2023, in foto qui sotto), film più costoso mai realizzato da quelle parti, durante gli anni della dominazione britannica è funzionale a sfuggire alle maglie della censura (ricordate Manzoni e “I promessi sposi”?). La storia di corruzione e speculazione finanziaria che vede scontrarsi il mefistofelico Henri Ching (Tony Leung) e il commissario Lau (Andy Lau, con i due attori che si scambiano i ruoli 20 anni dopo Infernal Affairs) era uno degli eventi più attesi del festival, e non delude le attese, regalando due ore di tensione in cui gli interpreti danno il meglio di sé. In una conversazione del film viene detto a Tony Leung "Hong Kong is not a place for daydreaming". Nel 1994 Hong Kong Express di Wong Kar Wai, con co-protagonista lo stesso Leung, si chiudeva con una cover di “Dreams” dei Cranberries cantata da Faye Wong.
Corea del Sud
Si presentava con due grandi nomi la Corea del Sud, Ryoo Seung-wan (atteso fra un mese a Cannes con il nuovo film), con il film di rapina Smugglers (2023) e Kim Seong-hun, noto in Italia prevalentemente per la serie Kingdom (su Netflix) con la spy-story Ransomed (2023), tratta da una storia vera. Smugglers vorrebbe incrociare la trilogia di Ocean di Steven Soderbergh con Il colpo di David Mamet, ma purtroppo Ryoo non dirige come Soderbergh e (soprattutto) non scrive come Mamet, e non bastano un paio di scene d’azione azzeccate nell’ultimo atto per sollevare un film complessivamente fiacco. Ransomed invece strizza l’occhio a James Bond, e pur non avendo la stessa potenza di fuoco (debole soprattutto il cast di comprimari libanesi ed europei/americani) riesce complessivamente a intrattenere e divertire (quando non cade nella retorica nazionalista…). Su tutto un altro livello il già citato Their Last Love Affair (1996) di Lee Myung-se, triangolo amoroso al neon che inizia come un film di Wong Kar Wai e procede per accumulo di sequenze autosufficienti, in un continuo a parte narrativo vissuto in una casa in lamiera appena fuori dalla città di Busan.
Giappone
Oltre al ben fatto tear-jerker 18x2: beyond youthful days (Michihito Fujii, 2024), storia d’amore mai sbocciata tra una ragazza giapponese ed un ragazzo di Taiwan, presentato in Concorso, il cinema del Sol Levante è rappresentato egregiamente dai due film restaurati di Somai Shinji, Typhoon Club (1985) e Moving (1993), quest’ultimo già vincitore del premio Venezia Classici come Miglior Film Restaurato nel 2023. In Typhoon Club un gruppo di adolescenti, minacciati da un tifone che sta per abbattersi sulla città, si rifugia a scuola, sfuggendo al controllo di professori e famiglie. Il film è il negativo di un racconto di formazione, in cui il mondo degli adulti è una carrellata di personaggi grotteschi e/o assenti, e ai ragazzi non resta altro che danzare sotto la pioggia in attesa della tempesta, fino a giungere ad una conclusione che lascia con il fiato sospeso.
Moving invece racconta il divorzio problematico di due genitori dal punto di vista della figlia undicenne Ren. La bambina, inizialmente, cerca di opporsi con tutte le sue forze al susseguirsi degli eventi, salvo poi rendersi conto di non poter cambiare le cose e rassegnarsi ad affrontare il proprio futuro. Nell’intelaiatura di una storia ordinaria colpiscono il nitore di sguardo e la compostezza dello stile ricercatissimo, che attraverso movimenti di macchina complessi ma mai fini a se stessi riesce a sposare perfettamente il punto di vista della bambina. Il finale (nell’immagine sotto), che sembra aprirsi ad una dimensione a metà tra l’onirico e l’ancestrale, resta una delle cose più affascinanti viste in questi giorni. Somai Shinji è un regista straordinario e speriamo che il tempo sappia rendergli giustizia.
Esultando alla notizia che Arnaud Desplechin e Lou Ye saranno effettivamente a Cannes (anche se Fuori Concorso) con i loro nuovi film Spectateurs e An unfinished film (Thierry Fremaux ci ha ascoltato!), dedichiamo la recensione di oggi a Civil War di Alex Garland. Su Challengers di Luca Guadagnino speriamo invece di tornare prossimamente.
Civil War
di Alex Garland
Nel 1996 la Casa Bianca veniva rasa al suolo da un potentissimo raggio spaziale lanciato da una navicella extraterrestre: i nemici erano gli alieni e il film era Indipendence Day dello specialista della distruzione Roland Emmerich. La contemporaneità del 2024 è ahinoi molto più tetra, e gli Stati Uniti non solo sanno bene di non essere affatto l’unica potenza egemone (come si è pensato per un breve periodo alla fine della Guerra Fredda) ma devono guardarsi anche dalle minacce interne alla loro sempre più fragile democrazia. In Civil War ad attaccare la Casa Bianca sono gli stessi americani, spinti da cause mai del tutto chiarite (il che ha scatenato non poche critiche: ci torneremo) a ribellarsi contro il governo centrale. Il punto di vista adottato da Alex Garland è quello di un team di giornalisti capitanato dalla veterana fotoreporter Lee Smith (Kirsten Dunst), con al seguito la giovane Jessie Cullen (Cailee Spaeny), armata anche lei di macchina analogica, che deve compiere in macchina la tratta da New York a Washington per andare ad intervistare il presidente prima dell’arrivo nella capitale delle forze secessioniste.
Sotto molti aspetti Civil War non si discosta dai classici film di guerra: ci sono scene d’assedio, momenti di guerriglia urbana, scontri a distanza con temibili cecchini e incontri con soldati incazzati (spaventoso quello interpretato da Jesse Plemons) che metteranno a repentaglio la vita dei protagonisti. A far compiere al film di Garland uno scarto decisivo rispetto ai suoi omologhi sono due fattori, il primo tecnico e il secondo di ambientazione. La fotografia iperrealista del film, intervallato dalle fotografie in bianco e nero scattate da Lee e Jessie, che costellano tutta la pellicola come una macabra punteggiatura, e la cura maniacale per il suond design, rendono la guerra di Civil War più temibile e “vera” delle altre solitamente messe in scena dalle produzioni hollywoodiane. Come se non bastasse, ad aggiungere ulteriori livelli di angoscia c’è il fatto che gli scenari di guerriglia solitamente ambientati in paesi lontani e percepiti dallo sguardo occidentale come più arretrati (pensiamo alla Somalia di Black Hawk Down, giusto per fare un esempio) vengono traslati in una America devastata dal conflitto, con scenari a metà tra un’apocalisse zombie alla The Last of Us e il Vietnam di Apocalypse Now (citato esplicitamente da Garland in più di un’immagine).
Il ruolo delle fotoreporter (e del giornalismo stesso) all’interno del conflitto è anch’esso carico di ambiguità: se in un pomeriggio su Midjourney si possono creare decine di immagini credibili di una ipotetica guerra civile americana, il ruolo della fotografia come testimonianza della realtà in questo contesto emerge già in tutta la sua problematicità. Per di più, né Lee né Jessie sono convinte con il proprio lavoro di poter cambiare il mondo (un mondo che, tra l’altro, non capiscono: nel districarsi tra le varie fazioni i giornalisti sono persi tanto quanto gli spettatori), e dunque si limitano a viaggiare verso la fine, per poter catturare l’immagine più significativa, o più efferata, o semplicemente più bella e poter così portare a casa un premio. Non c’è quindi molta fiducia da parte di Garland nel ruolo dell’immagine analogica, quanto più una constatazione di subalternità che vorrebbe farsi monito, ma subisce essa stessa la fascinazione della violenza che mette in scena.
E veniamo dunque al nodo che ha fatto arrabbiare ad esempio Andrew Marantz nel suo commento sul New Yorker: della guerra civile messa in scena da Garland non si capiscono i contorni, non si è in grado di delineare le fazioni e non si riescono a intuire tutti i contendenti (a un certo punto fanno capolino in un discorso persino i Maoisti di Portland). Se magari per un commentatore americano non deve essere semplice fare un passo indietro di fronte a queste reticenze, per di più in uno scenario politico che rende l’ipotesi del film più plausibile di quanto vorremmo, bisogna però una volta di più cercare di valutare Civil War non tanto per quello che non dice, quanto per quello che dice e per come lo fa. Garland non punta all’analisi politica, bensì coglie le ansie del presente per mettere in scena una fantasia oscura nella maniera più spaventosa possibile, ma mai inquietante quanto un presente che ispira opere di questo tipo.