Happy Hour #25: Perfect Days, The Holdovers, gli Oscar e Berlino
In un periodo di grandi annunci ci concentriamo sui nuovi film di Wim Wenders e Alexander Payne, attualmente in sala
Quante cose di cui parlare! Allora: nella giornata di martedì 23 sono state annunciate le nomination per i prossimi premi Oscar, che verranno assegnati la notte del 10 marzo. A farla da padrone è stato Oppenheimer (in foto), che guida la conta con ben 13 nomination, ed è al momento il (netto?) favorito per portarsi a casa le statuette più ambite. Seguono il Leone d’Oro Povere creature! con 11 candidature e Killers of the Flower Moon con 10 (numero infausto per Scorsese, già raggiunto con Gangs of New York e The Irishman, per i quali aveva poi riscosso un totale di 0/20), tra cui quella alla regia, la decima per Scorsese, che diventa il regista più anziano ad essere mai stato nominato; “solo” quarto invece Barbie, fermo a quota 8 nomination. Proprio il film di Greta Gerwig può dirsi il grande deluso del lotto, senza candidature né per la propria regista (in lizza comunque come sceneggiatrice) né per la protagonista Margot Robbie (che ha avuto tuttavia una nomination da produttrice) nelle rispettive categorie (evento che ha fatto insorgere persino Hillary Clinton, non si capisce bene perché).
Può sorridere invece l’Italia, con Io Capitano di Matteo Garrone (in foto) che entra nella cinquina come Miglior Film Internazionale, in cui però c’è un grande favorito, ovvero The Zone of Interest di Jonathan Glazer, con qualche (minima) chance anche per Perfect Days di Wim Wenders (di cui parleremo nella prima recensione di oggi). Non c’è, invece, la Francia, nonostante le 5 nomination in categorie pesantissime (film, regia, attrice, montaggio e sceneggiatura) per Anatomia di una caduta di Justine Triet: sul perché il film non sia stato scelto per rappresentare il paese come Miglior Film Internazionale vi rimandiamo all’ultimo numero della newsletter.
Pochi giorni prima (e con decisamente meno clamore mediatico), è stato annunciato il programma della 74° edizione del Festival di Berlino, nonché l’ultima co-diretta dall’italiano Carlo Chatrian (in foto), dimessosi lo scorso anno (insieme alla codirettrice Martina Rissenbeck) a seguito di pressioni da parte della Ministra della Cultura tedesca Claudia Roth. All’estero la notizia aveva suscitato un certo scompiglio, tanto che un gruppo di oltre 300 registi (tra cui Paul Schrader, Kristen Stewart, Ryusuke Hamaguchi e Martin Scorsese, che quest’anno verrà premiato con l’Orso d’oro alla carriera) aveva indirizzato una dura lettera aperta alla ministra, definendo il suo comportamento “dannoso, non professionale e immorale” (!!!) e chiedendo (ahinoi, invano) la reintegrazione di Chatrian. Oltre ad osservare amareggiati quanto sta succedendo, il suggerimento è di prepararci per quello che accadrà quest’anno, quando il nuovo Presidente della Biennale di Venezia Pietrangelo Buttafuoco (nominato dal Governo Meloni) dovrà scegliere il successore di Alberto Barbera, la cui riconferma sembra improbabile…
L’ultima edizione di Chatrian e Rissenbeck si presenta comunque con una lineup di assoluto livello. In questi anni, di fronte ad una voracità ai limiti della bulimia dei festival maggiori (Cannes e Venezia), Berlino è stata “costretta” a sperimentare di più, a osare, a dare spazio ad esordienti, registi “scomodi”, ridotti spesso ad uno spazio marginale, non tanto per meriti quanto per minore appeal “commerciale”. Quest’anno tra i venti titoli in concorso, che contano anche due esordi e due documentari, spiccano L’Empire di Bruno Dumont, una assurda rilettura di Star Wars che speriamo prima o poi possa arrivare anche da noi (vi prego, guardate il trailer), Dahomey, opera seconda di Mati Diop, Hors du Temps di Olivier Assayas e A Traveler’s Needs di Hong Sangsoo, abitué della Berlinale, con la divina Isabelle Huppert. Segnaliamo anche due registi italiani in Concorso: Piero Messina, che dirige Gael Garcia Bernal e Berenice Bejo in Another End, e Margherita Vicario, attrice e cantante all’esordio da regista con Gloria!.
Le recensioni di oggi sono dedicate a Perfect Days di Wim Wenders e The Holdovers- Lezioni di vita di Alexander Payne, altro probabile protagonista agli Oscar con 5 nomination (molto forti quelle per Paul Giamatti e Da’Vine Joy Randolph), mentre su Povere creature!, che è appena uscito, ci ripromettiamo di tornare nel prossimo numero.
Perfect Days
di Wim Wenders
Le giornate di Hirayama (Koji Yakusho, premiato a Cannes) sono tutte uguali: si sveglia all’alba, ripiega con cura il suo futon, innaffia le piante, esce di casa scrutando il cielo in cerca del sole, poi un caffè e via a lavoro in macchina. Il suo compito? Pulire alcuni avvenieristiche toilette pubbliche di Tokyo, progettate da archistar giapponesi (il film nasce come un documentario su queste strutture), insieme ad un aiutante giovane e petulante. In pausa pranzo, sempre sulla stessa panchina, Hirayama scatta delle foto (analogiche, ça va sans dire) in bianco e nero delle fronde degli alberi, in un tentativo di catturare la komorebi, ossia “il luccichio di luci e ombre creato dalle foglie che oscillano nel vento”. A fine giornata, dopo essersi lavato in un bagno pubblico, Hirayama cena in un bar della metropolitana, torna a casa e legge qualche pagina di Faulkner prima di coricarsi. Nei vari spostamenti ci si può concedere un po’ di musica, ascoltata rigorosamente in analogico, su musicassetta, dallo stereo della macchina: nella colonna sonora (strepitosa) ci sono The House of the Rising Sun, Van Morrison, Janis Joplin, i Kinks, i Velvet Underground, oltre ovviamente a Perfect Days di Lou Reed.
“Such a perfect day // Feed animals in the zoo // Then later, a movie too // And then home”
Ecco, proprio nel testo della canzone che dà il titolo al film mi sembra che possiamo rintracciare una prima crepa nel quadro apparentemente immacolato di Perfect Days. Nelle giornate di Hirayama non c’è spazio per andare al cinema o allo zoo: tutto è occupato dalla routine legata, in buona sostanza, al lavoro. Pur vivendo in maniera pacificata il rapporto con la sua professione, che svolge con certosina precisione adoperando oggetti costruiti da lui stesso, Hirayama è consapevole della scarsa considerazione che alcuni cittadini nutrono per il suo impiego. Quando, all’inizio del film, trova un bambino chiuso in un bagno e lo porta fuori per mano alla ricerca dei genitori, Hirayama osserva il piccolo allontanarsi assieme alla madre, la quale non solo non lo degna di una parola di ringraziamento, ma si affretta a pulire con una salviettina la mano del bambino.
“Oh it’s such a perfect day // I’m glad I spent it with you”
Per di più, il classico di Lou Reed fa riferimento ad una giornata vissuta in compagnia, mentre Hirayama trascorre il suo tempo quasi sempre da solo: per scelta? Per vocazione? Non lo sappiamo. Intuiamo da uno scambio con la sorella che il rapporto con la famiglia è molto tormentato, ma il film decide di non indagare le ragioni di questa frattura.
“You're going to reap just what you sow”
Di notte, Hirayama sogna. Negli inserti onirici in bianco e nero (opera di Donata Wenders, fotografa e moglie del regista) si mescolano le foto scattate a pranzo, gli avvenimenti della giornata e frammenti di vita vissuta. Lo diceva Rudiger Vogler in Alice nelle città (“When you come to America […] the images you see change you”), lo sogna Koji Yakusho in Perfect Days: siamo le immagini che vediamo. Quelle che quindi possono sembrare semplici parentesi antinarrative, un “a parte” all’interno di una narrazione già di per sé distesa e piena di respiri, sono in realtà un monito, un invito a dare valore non solo a ogni singolo momento, ma ad ogni singolo sguardo.
Lungi dunque dall’essere un paradiso di pace e serenità, il mondo di Hirayama (che si chiama come la famiglia de Il gusto del sakè e di Viaggio a Tokyo di Ozu, a cui Wenders ha dedicato il documentario Tokyo-Ga), uno dei tanti che compongono il nostro mondo, è semplicemente la quotidianità di un individuo in pace con se stesso, ma tutt’altro che ignaro delle difficoltà della vita, che prova a superare con il solo strumento che, in questo momento, cioè nei momenti che compongono Perfect Days, quelli in cui si rincorre l’effimero komorebi, non prima, non dopo (“Un’altra volta è un’altra volta. Adesso è adesso.”), gli permette di superare i suoi tumulti interiori e guardare il sole ogni mattina con rinnovata speranza: l’arte, senza la quale la vita non avrebbe senso di essere vissuta. Senza il rock, Wim Wenders ha dichiarato più volte che avrebbe fatto l’avvocato. Chissà quale musicassetta ascolterà Hirayama domani mattina…
The Holdovers- Lezioni di vita
di Alexander Payne
Uno dei tratti caratteristici del cinema di Alexander Payne è quello di aver posto al centro dei suoi film spesso e volentieri fisicità non conformi, lontane anni luce dagli irreali standard di bellezza dello star system hollywoodiano, molto prima che “inclusività” diventasse una delle parole d’ordine del cinema d’oltreoceano (eppure, provate a trovare un attore/attrice meno che bellissimo/a in Povere creature!, Oppenheimer, Barbie o Maestro), e senza però che questo aspetto avesse la meglio sulla narrazione, evitando con sagacia il rischio di ricadere in un pigro buonismo.
Già in Sideways- In viaggio con Jack uno di questi volti irregolari era quello di Paul Giamatti, attore straordinario che non a caso negli ultimi anni non ha avuto parti di rilievo, e che prima di The Holdovers non riceveva una nomination agli Oscar dal 2006. In quest’ultimo film, Giamatti interpreta l’anziano professore di lettere della Barton Academy Paul Hunham, che viene costretto a spendere il Natale in accedemia in compagnia dello studente Angus Tully (Dominic Sessa, una rivelazione), lasciato lì dalla madre in luna di miele improvvisata, e della cuoca Mary (Da’Vine Joy Randolph, fantastica), che ha appena perso il figlio in Vietnam.
Come spesso accade nei film di Alexander Payne, The Holdovers a un certo punto diventa anche un road-movie, occasione per consolidare i legami di questa nuova famiglia disfunzionale (come in Nebraska) e per mettere alla luce le radici della disillusione di Paul, bloccato in un eterno e immobile presente ed incapace di uscire dalla “comfort zone” della Barton. Al contrario tuttavia di A proposito di Schmidt, in cui la morte della moglie metteva il suo protagonista di fronte a un bilancio sconfortante della propria esistenza, che si chiudeva con un pianto disperato di Jack Nicholson, il malinconico finale di The Holdovers (spoiler) lascia la porta aperta alla speranza: il sacrificio di Paul è una possibilità per Tully, ma anche per lo stesso professore, libero di viaggiare nel Mediterraneo e magari scrivere la monografia che pianifica da tempo.
Ambientato nel Natale del 1970, il film di Payne è pieno di elementi che omaggiano il cinema americano di quegli anni, dal logo retrò della Paramount in apertura all’effetto pellicola aggiunto in post-produzione (il film è in realtà girato in digitale), per finire con l’uscita al cinema a vedere Piccolo grande uomo di Arthur Penn. Ciò che invece manca del cinema della New Hollywood è lo spirito anarchico e rivoluzionario, sia nei personaggi, sia nello stile, la voglia di uscire da un sistema in cui non ci si può riconoscere, e in cui invece Tully e Paul cercano un’affermazione. Laddove i vari Benjamin Braddock, Clyde Barrow, Robert Dupea e Sonny Crawford erano animati da un desiderio di fuga da un mondo di cui riconoscevano le storture, nei personaggi dei film di Payne (spesso interpretati dagli stessi attori di quei film ormai invecchati: Jack Nicholson, Bruce Dern, Stacy Keach) il sentimento chiave è invece la disillusione, specchio della consapevolezza dell’impossibilità del cinema (americano) di essere all’altezza di un modello ormai irraggiungibile.
Muovendosi con successo sul sottile crinale che separa tragico e comico, The Holdovers è un piccolo film fatto di piccoli momenti, teneri e privati, buffi e assurdi, goffi e commoventi, che riesce a strappare risate e lacrime abbracciando un meraviglioso trio di personaggi che non dimenticheremo facilmente.