Happy Hour #24: Il ragazzo e l'airone, Saltburn e i Golden Globe
Il punto sull'ultima fatica di Hayao Miyazaki, in sala, sull'opera seconda di Emerald Fennell, su piattaforma, e sulle polemiche francesi su Anatomia di una caduta
La notte tra il 7 e l’8 Gennaio si è tenuta l’ottantunesima edizione dei Golden Globe, i premi assegnati dalla neonata Golden Globe Foundation, che ha raccolto il testimone dalla defunta Hollywood Foreign Press Association (l’associazione dei giornalisti stranieri a Hollywood), travolta dagli scandali e le polemiche che ne hanno minato prestigio e credibilità. La serata ha visto trionfare Oppenheimer, che ha vinto come Miglior Film Drammatico, mentre Poor Things! di Lanthimos, l’ultimo Leone d’Oro, ha vinto nella categoria Miglior Film Commedia o Musicale, con Emma Stone premiata come miglior attrice della categoria. Christopher Nolan ha vinto il riconoscimento come miglior regista, Cillian Murphy come miglior attore in un film drammatico e Robert Downey Jr. come miglior attore non protagonista.
Altri premi sono andati a Lily Gladstone per Killers of the Flower Moon, agli attori di The Holdovers (nei cinema italiani da giovedì) e ad Anatomia di una caduta (sceneggiatura e film straniero), che non concorrerà però per l’Oscar nella categoria “Miglior Film Internazionale”. La Francia ha preferito infatti candidare La passion de Dodin Bouffant, ultimo film di Tran Ahn Hung premiato per la regia all’ultimo Festival di Cannes (dove, ricordiamo, Anatomia di una caduta ha vinto la Palma d’Oro). La scelta sarebbe anche dovuta alle dichiarazioni fortemente critiche nei confronti del governo fatte dalla regista Justine Triet nel discorso di accettazione della Palma (a questo link, in francese). Dal palco del Grand Theatre Lumiére, Triet si è scagliata contro “la mercificazione della cultura portata avanti dal governo neoliberale che rischia di sopprimere l’eccezione culturale francese”. Erano seguite immediatamente le risposte piccate della Ministra della Cultura Rima Abdul Malak, che aveva definito ingiusto il discorso di Triet (in foto il suo tweet, vagamente minaccioso). Ovviamente non esiste nessuna conferma che sia stato questo il motivo per cui la Francia ha scelto di non proporre Anatomia di una caduta come miglior film straniero; certo, è sorprendente che i francesi si siano lasciati sfuggire un candidato così forte, che sicuramente sarebbe entrato in cinquina ed avrebbe avuto chances molto concrete di portarsi a casa la statuetta (che Oltralpe manca da più di trent’anni).
Anche Il ragazzo e l’airone, ultimo straordinario film di Hayao Miyazaki che sta dominando il botteghino italiano di questo inizio 2024, è stato premiato nella serata dei Golden Globe come miglior film d’animazione. Ne parleremo nella prima recensione di oggi, mentre la seconda è dedicata alla discussa opera seconda di Emerald Fennell Saltburn, disponibile su Amazon Prime Video e diventata virale su Tiktok, probabilmente per via delle numerose scene esplicite (“Don’t watch Saltburn with your family!”, si legge nei video della piattaforma) e della presenza di alcune giovani star (su tutte Jacob Elordi e Barry Keoghan). Nel frattempo è in sala quello che si preannuncia già come uno dei film dell’anno, ovvero Perfect Days di Wim Wenders, su cui ci promettiamo di ritornare nel prossimo numero (come avrete notato, Happy Hour ha ripreso la consueta cadenza bisettimanale). Correte al cinema!
Il ragazzo e l’airone
di Hayao Miyazaki
“Non riesco a trattenermi dal disegnare, così come la Terra gira”, recita l’ultimo verso di Spinning Globe, la canzone di Kenshi Yonezu che accompagna i titoli di coda de Il ragazzo e l’airone; non deve dunque sorprenderci che a dieci anni di distanza dal testamentario Si alza il vento e dalle successive dichiarazioni di ritiro, Hayao Miyazaki sia tornato a dirigere un lungometraggio alla tenera età di 82 anni.
Inizia con una Tokyo in fiamme l’ultimo film del regista giapponese, devastata dai bombardamenti aerei (siamo nel mezzo della seconda guerra mondiale) in cui perde la vita Hisako, madre del giovane Mihato. Due anni dopo, il padre di Mihato si risposa con Natsuko, sorella di Hisako (“quando l’ho vista per la prima volta era identica a mia madre”), ma Mihato fatica ad accettare la sua nuova famiglia, non avendo ancora superato del tutto il lutto per la perdita della madre. Quando un airone cenerino dalla bocca gigantesca gli verrà a dire di essere in grado di portarlo da sua mamma, Mihato entrerà in un mondo fantastico e non privo di insidie, che dovrà esplorare fin nel profondo per ritrovare la sua matrigna Natsuko, misteriosamente dispersa.
Il viaggio di Mihato nell’altro mondo (a cui accede letteralmente dal giardino di casa) ha connotati danteschi: il ragazzo è guidato da vari Virgilio (Kiriko, l’airone stesso, Himi) in un percorso di ascesa che termina in un vero e proprio paradiso, e alla fine si troverà a fare i conti con un uomo che ha peccato di hybris assumendo il ruolo di dio. Prima che allegorico, però, quello di Mihato è innanzitutto un percorso di accettazione: di una perdita (quella della madre, Hisako) e di una nuova famiglia, quella composta da Natsuko (che, significativamente, passerà da zia Natsuko a mamma Natsuko) e dal bambino che questa porta in grembo. È anche, Il ragazzo e l’airone, un racconto di formazione, il percorso di crescita di un ragazzo che si troverà a mettere da parte il suo lato più maschile, simboleggiato dall’arco che Mihato imbraccia all’inizio del film, desiderio di emulazione paterna (il padre lavora in una fabbrica di armi), in favore di quello più femminile e materno, che scoprirà tramite il rapporto con Himi nell’altro mondo e l’apertura agli altri in questo mondo. E poco importa se il viaggio termina nella stessa cameretta da cui è partito (incredibilmente, come quello di Nomadland, altro “road movie” sull’elaborazione del lutto): il Mihato che abbiamo davanti non è più lo stesso, e due anni dopo sarà pronto per tornare a Tokyo e “provare a vivere”, come nei versi di Paul Valery citati in Si alza il vento.
Per quanto irriconoscibile sul piano iconografico, l’universo alternativo de Il ragazzo e l’airone, pieno di porte che si affacciano su altre realtà come Suzume di Makoto Shinkai, ha molti tratti in comune col nostro: la scena in cui i Warawara vengono aggrediti dai pellicani, e i volatili dispersi dalle fiamme, ha non poche assonanze con i bombardamenti de Il castello errante di Howl (e dell’inizio stesso di questo film), e poche immagini mi sembrano più sfacciatamente allegoriche di un sovrano impettito (il re parrocchetto) che non accetta le regole a cui il mondo deve sottostare, estrae le armi e, in uno scatto d’ira, provoca una gigantesca esplosione che avvolge l’universo in una coltre di fiamme e oscurità. Da questa apocalisse si salveranno, non a caso, i più giovani, mentre lo stanco saggio che reggeva le colonne del mondo scompare nell’oscurità: che sia un alter ego dello stesso regista?
Tra mille suggestioni immaginifiche che si susseguono senza soluzione di continuità, attraverso un flusso inesausto di invenzioni visive, Miyazaki riesce ad alternare momenti orrorifici e lirici, teneri e struggenti, appoggiandosi sulle commoventi note della colonna sonora firmata dal fidato collaboratore Joe Hisaishi, e regalandoci l’ennesima opera magistrale, in equilibrio precario tra luce e oscurità come tutto il suo cinema, fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Saltburn
di Emerald Fennell
Potrebbero essere più diversi, Oliver e Felix? Il primo (Barry Keoghan) timido, impacciato, dal volto spigoloso e non “conforme”, con madre alcolista e padre spacciatore, arrivato ad Oxford grazie alle borse di studio; il secondo (Jacob Elordi) raggiante, solare, rampollo di una famiglia ricchissima, con un fisico da modello di Abercrombie, sempre circondato da una schiera di “fan” che vivono della sua luce riflessa. Eppure, dopo un incontro fortuito (…), i due diventano amici, e dopo la morte per overdose del padre di Ollie, Felix lo invita a passare l’estate con lui e la sua famiglia a Saltburn, faraonica reggia nella campagna inglese.
Le cose tuttavia non stanno come sembrano. Già dall’inizio del film, in cui Oliver si rivolge direttamente agli spettatori, è chiaro che non possiamo fidarci del narratore, contraddittorio fin dalla prima battuta (“I wasn’t in love with Felix. I loved him, but I wasn’t in love with him.”). Non siamo dunque sorpresi quando il piano di Ollie inizia a dipanarsi, e il ragazzo, meno ingenuo e naif di quanto non sembri (o meglio, dovrebbe sembrare), inizia a tessere la sua rete di inganni attorno alla famiglia di Felix. Come in Teorema di Pasolini, dunque, c’è un agente esterno che si insinua in una famiglia alto borghese (qui probabilmente nobiliare), andandone a smascherare ipocrisie e falsi miti servendosi del proprio corpo. Come Terence Stamp, Oliver sedurrà uno ad uno (quasi) tutti gli abitanti della casa, attratto sia dalla bellezza canonica di Felix che (soprattutto?) dall’aura di potere che Saltburn emana (in questo senso il rapporto con Venetia assume una forte valenza simbolica: il suo sangue è un “nettare degli dei”, una chiave per il paradiso). La stessa provenienza di Ollie non è quella povera e dimessa che il ragazzo dà in pasto ad una famiglia (quella di Felix) affamata di verità, che tuttavia non ha “mai voluto sapere niente”, bensì quella di un figlio della upper-middle class del Merseyside, tra villette a schiera e vacanze a Mykonos.
Il bersaglio di Fennell è dunque duplice: da una parte mettere alla berlina la totale inadeguatezza di una classe dirigente inetta, ottusa e ignorante, incapace di leggere il mondo con lenti diverse dalle proprie (e destinata per questo al collasso: il film è ambientato nel 2007, alla vigilia della crisi economica globale che avrebbe cambiato tutto affinché tutto rimanesse come prima); dall’altra puntare il dito contro l’arrivismo di una gioventù rampante (e borghese) ossessionata dall’idea di successo, incapace di accontentarsi e disposta a farsi il culo (“noi possiamo solo lavorare”, dice Ollie nel ridondante spiegone finale) pur di salire un altro gradino della piramide. Ma come è messa in scena questa scalata sociale?
Saltburn inizia con il protagonista che si rivolge direttamente agli spettatori, e nel corso del film enuncia un “teorema” (che di quello pasoliniano è la versione attualizzata, dissacrata, corredata di “origin story” e spogliata di mistero) di cui la trama del film è la dimostrazione, mentre le immagini ne costituiscono l’illustrazione. Tutto, nel film di Fennell, è affermativo: l’estetica catchy e instagrammabile della fotografia di Linus Sandgren (sodale di Damien Chazelle), la realtà monodimensionale e dorata della tenuta di Saltburn, la riaffermazione trionfante della strategia di Ollie di fronte alla morente Elspeth. Finanche la scelta di casting di Barry Keoghan nel ruolo di Oliver è un’ulteriore sottolineatura, andando ad eleggere come distruttore di una famiglia altolocata colui che già aveva assolto questo compito ne Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos. Ci viene in mente allora un altro film, sempre su piattaforma (Netflix in questo caso), in cui un personaggio racconta in voce over la propria versione dei fatti, ovvero The Killer di David Fincher. Del “teorema” del sicario interpretato da Michael Fassbender, però, la trama di The Killer era la confutazione, e le immagini l’aggiunta di un ulteriore livello di ambiguità, lasciando lo spettatore con la domanda delle domande: meglio essere one of the few o one of the many? Alla fine di Saltburn ci sembra di non avere domande a cui pensare. E questo è un peccato.