Happy Hour #54: Bob Dylan, gli Oscar e Berlino
Le nomination agli Oscar, il programma della Berlinale e la recensione di A Complete Unknown
Nel momento in cui scrivo la notizia delle nomination agli Oscar è già “vecchia” di una decina di giorni, e sicuramente ne avrete sentito parlare o letto da qualche parte: il film che ha ottenuto più candidature è Emilia Perez (locandina nell’immagine) di Jacques Audiard (ben 13, una in meno del record detenuto da Eva contro Eva, Ben Hur e Titanic), seguito da The Brutalist (e forse proprio questi due titoli erano i favoriti per la statuetta più ambita, prima della bufera per dei vecchi tweet di Karla Sofia Gascon, in un’annata comunque molto più aperta delle precedenti) e Wicked a quota 10 e l’accoppiata Conclave e A complete unknown (a cui è dedicata la recensione di oggi) a quota 8. Pesanti anche le 5 nomination di The Substance (film, attrice per Demi Moore, forse al momento la favorita, regia e sceneggiatura per Coralie Fargeat, oltre al trucco) e le 3 di Sono ancora qui: miglior film internazionale, miglior film (doppietta anche per Emilia Perez) e miglior attrice per Fernanda Torres, prima attrice brasiliana della storia a ricevere questo riconoscimento. Sì, perché nella discussione (spesso sterile) sui premi spesso si dimentica che la nomination all’Oscar è già di per sé un riconoscimento, a prescindere dall’esito finale, come aveva ben presente Gillo Pontecorvo, che esponeva orgogliosamente a casa le nomination ottenute per La battaglia di Algeri (anche se queste poi non si trasformarono in statuette).
Molti meno fra i lettori e le lettrici avranno invece avuto notizia dei titoli annunciati alla prossima Berlinale, la prima diretta da Tricia Tuttle, che è subentrata all’italiano Carlo Chatrian (accasatosi intanto al Museo del Cinema di Torino). Il programma è notevole, agli occhi di chi scrive, e riesce ad affiancare alla solita quota di novità che la Berlinale riesce ad ospitare ogni anno anche un nutrito manipolo di star e autori di caratura internazionale. Oltre alla prima europea di Mickey 17, il nuovo film di Bong Joon-oh, sei anni dopo Parasite (Fuori Concorso) c’è Blue Moon di Richard Linklater con Ethan Hawke, Dreams di Michel Franco con Jessica Chastain, The Ice Tower di Lucille Hadzihailovic con Marion Cotillard (nell’immagine), Kontinental ‘25 di Radu Jude, e poi gli habitué Hong Sang-soo, con What Does Nature Say to You? (in Concorso, come gli altri titoli fin qui citati), e James Benning (little boy, nella sezione Forum), artista unico e irregolare che ormai da 40 anni presenta alla Berlinale i suoi lavori. C’è curiosità anche per due titoli dalla Cina, ovvero Living the Land di Huo Meng e Girls on Wire di Vivian Qu.
L’unica recensione di oggi è dedicata ad A Complete Unknown, il film di James Mangold sulla svolta elettrica di Bob Dylan. Tra le uscite delle prossime settimane segnaliamo The Brutalist di Brady Corbet (6 febbraio), uno dei pochi film capaci ancora di concepire un cinema “bigger than life”, e finalmente anche Una viaggiatrice a Seoul di Hong Sang-soo, vincitore del Gran Premio della Giuria alla Berlinale 2024. La (sterminata) produzione di questo regista in Italia è per lo più inedita: il consiglio è di cercare Una viaggiatrice a Seoul e di non perdersi questa occasione più unica che rara. Di alcuni di questi film ci riproponiamo di parlare nel prossimo numero di questa newsletter.
A Complete Unknown
di James Mangold
“How does it feel?”
Da dove viene l’immagine al centro del ritornello di Blowin’ in the Wind? Chi è la ragazza a cui è dedicata Girl from the North Country? Che significato hanno i versi di Like a Rolling Stone? Come è possibile che un essere umano abbia scritto queste e un’altra ventina di canzoni epocali nell’arco di soli tre anni, tra il 1962 e il 1965, per tacere delle innumerevoli meraviglie successive, da Blonde on Blonde a Blood on the Tracks fino a Love and Theft e tutti gli altri? L’errore più grande che Mangold (col suo co-sceneggiatore Jay Cocks) poteva fare era prendere uno degli artisti più profondi e misteriosi del Novecento e tentare di spiegarlo, di piegarlo a una logica, di ridurlo a una serie di relazioni causa-effetto (come aveva fatto con Johnny Cash in Walk The Line, vent’anni fa), di usare il cinema per (illudersi di) trovare delle risposte. Il più grande pregio di A Complete Unknown è invece quello di lasciare lo spettatore pieno di domande, restando pienamente fedele al proprio titolo: alla fine del film, Robert Allen Zimmermann è tanto imperscrutabile per lo spettatore quanto lo è lo sconosciuto che, nella prima scena, si ritrova a New York con una chitarra e poco altro per rendere omaggio al suo idolo Woody Guthrie.
Che il mistero e l’irriducibilità a ogni semplificazione fossero le chiavi giuste per avvicinarsi a un personaggio come Bob Dylan l’aveva capito già (e meglio, ma poco importa) Todd Haynes, che in Io non sono qui (2007) aveva fatto interpretare il menestrello d’Americo a sei attori differenti, e Dylan stesso, nella canzone “I contain multitudes” contenuta nell’album Rough and Rowdy Ways (2020) scrive “I am a man of many moods // I contain multitudes”. L’aveva capito anche Arnaud Desplechin, che in I fantasmi d’Ismael (2017) faceva ballare Marion Cotillard, presenza fantasmatica riapparsa dal nulla dopo vent’anni, sulle note di It Ain’t Me, Babe, in una scena tra le più belle del cinema degli ultimi dieci anni. Aspettarsi simili livelli di sperimentalismo da A Complete Unknown sarebbe sbagliato oltre che ingeneroso: l’obiettivo di Mangold, che è un regista fondamentalmente popolare (e non è assolutamente questa una mancanza che gli si possa imputare), è portare una storia classicamente intesa, quella dell’ascesa di Bobby Dylan, della sua tormentata storia d’amore con Sylvie (Elle Fanning, che interpeta la “vera” Suze Rotolo a cui Dylan stesso ha chiesto di cambiare nome), pittrice che lo avvicina al movimento per i diritti civili, della relazione “clandestina” con Joan Baez (Monica Barbaro) e dei contrasti col movimento folk e con Pete Seeger (Edward Norton) dopo la svolta elettrica di Bringing It All Back Home e Highway 61, ad un pubblico il più vasto possibile. Nel suo armamentario non c’è spazio per i fuochi d’artificio: ogni movimento di macchina è funzionale al racconto, la regia non prende mai una strada inattesa rimanendo sempre al servizio degli attori. Ecco. Se è difficile definire A Complete Unknown un film d’autore (per quanto penne più audaci di chi scrive lo stiano facendo, con risultati affascinanti) è facile invece riconoscerlo come un grande film di attori. Sono le interpretazioni, e in particolare le interpretazioni musicali, a rendere il film capace di uno scarto, di trovare accensioni improvvise, di far accadere la magia sullo schermo. Oltre alla sorprendente Monica Barbaro e al solito Edward Norton, è impossibile non sottolineare la prova eccezionale di Timothée Chalamet, che riesce ad essere un Dylan credibile senza fargli il verso, a ricordarlo nelle movenze, nella voce e nel modo di suonare senza giocare al “Tale e Quale Show”, ad anticiparne le svolte più drammatiche (l’incidente in moto del 1966, sottilmente evocato in un paio di scene), ad incarnarne gli spigoli, gli eccessi e le contraddizioni (e non a caso Mangold sceglie coraggiosamente di citare proprio Toro Scatenato, tra tutti i film possibili, nella commovente scena dell’addio tra Bob e Sylvie/Suze), a racchiuderne il mistero nelle ombre del viso.
“Let me forget about today until tomorrow”
Perché non può esistere nessuna spiegazione, nessuna premessa, nessuna ipotesi che possa giustificare la genesi del testo di Like a Rolling Stone, nessuna ispirazione che possa rendere naturale il cielo che si piega sotto ai piedi della ragazza in It’s all over now, Baby Blue (che può essere Suze/Sylvie, può essere Joan, può essere un simbolo per tutto il movimento del folk o tutte o nessuna di queste cose), nessun paesaggio reale o immaginario che possa fare da sfondo ai deliri di Mr. Tambourine Man. E allora il film, anziché tentare di fornirci delle risposte, preferisce lasciarci in compagnia di nuove domande. Dove sta guardando Timothee Chalamet nell’ultima inquadratura, prima di ripartire in moto diretto chissà dove? “Strike another match, go start anew.” And it’s all over now, Baby Blue.