Happy Hour #52: Nosferatu, la Divina e i Golden Globes
Recensioni di due tra i film più belli che affollano le sale in questo inizio di 2025
Nella notte tra domenica e lunedì si sono tenute le premiazioni dei Golden Globes, che hanno visto trionfare The Brutalist, passato a Venezia e in uscita in Italia a fine mese, come Miglior film Drammatico, ed Emilia Perez (in uscita giovedì in Italia) come Miglior film Commedia o Musicale e Miglior film internazionale, battendo quindi la concorrenza (tra gli altri) di Vermiglio. Tra gli attori sono stati premiati Adrien Brody (The Brutalist), Demi Moore (in foto) per The Substance, Sebastian Stan per A Different Man e Fernanda Torres per I’m Still Here. Il premio per la Miglior Regia è andato a Brady Corbet per The Brutalist, mentre per la sceneggiatura è stato premiato Conclave. Il film più premiato è stato Emilia Perez con 4 statuette (hanno vinto anche Zoe Saldana come attrice non protagonista e la canzone El mal), seguito da The Brutalist con 3. Pur fornendo delle prime indicazioni, che sottolineano l’assenza di un asso pigliatutto quale è stato Oppenheimer la scorsa stagione, è presto per dire se questi premi indicheranno i trionfatori della stagione che porterà agli Oscar, vista anche la perdita di centralità da parte dei Golden Globes nel corso degli ultimi anni.
Le recensioni di oggi sono dedicate a due dei film del momento: Nosferatu di Robert Eggers, con un’analisi ampia che tenta di farlo dialogare con i due (quasi) omonimi film tedeschi che l’hanno ispirato e preceduto, e Maria di Pablo Larrain, di cui riproponiamo la recensione breve scritta a Venezia. Le uscite notevoli di queste settimane si sprecano: tra le tantissime segnaliamo Here di Robert Zemeckis e il sopra citato Emilia Perez il 9 gennaio, Oh, Canada! di Paul Schrader e L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie il 16 gennaio. Di alcuni di questi titoli parleremo su Happy Hour prossimamente.
Nosferatu
di Robert Eggers
Che Friedrich Wilhelm Murnau fosse un punto di riferimento (un faro, oserei dire) per il cinema di Robert Eggers lo si era già capito da The Lighthouse, opera seconda del cineasta americano, che, a cominciare dallo stile accademicamente esibito (formato quasi quadrato fotografato in un bianco e nero iper espressionista), strizzava vistosamente l’occhio al cinema tedesco della Repubblica di Weimar. Era forse inevitabile dunque, per un regista dell’ambizione di Eggers (qualità che nemmeno i detrattori più agguerriti possono negargli), confrontarsi con una delle opere più significative e sedimentate nella memoria collettiva di Murnau e di tutto il cinema horror: il leggendario Nosferatu del 1922, già oggetto di una riproposizione (sublime) da parte di Werner Herzog nel 1979. Posto che il confronto con due capolavori di questa portata sarebbe ingeneroso per chiunque, trovo comunque interessante analizzare per sommi capi le diverse posizioni che questi registi hanno preso di fronte allo stesso materiale di partenza, ovvero il Dracula di Bram Stoker (i cui eredi fecero causa proprio a Murnau per plagio, chiedendo e ottenendo la distruzione di tutte le copie del film, miracolosamente poi arrivato fino ai giorni nostri) adattato, tra i tantissimi altri, anche da Francis Ford Coppola nel 1992.

Nel 1922 Murnau, costretto a cambiare i nomi dei personaggi per le sopra citate questioni di diritti, poneva l’accento (anche) sul clima di tensione sociale della città di Wisborg in cui il film era ambientato, prefigurando col senno di poi le derive più inquietanti della Germania nazista (la caccia all’untore come prodromo dell’antisemitismo). Il suo vampiro rappresentava un pericolo imminente, un’ombra che (letteralmente) si stagliava sull’incolpevole Ellen, unico oggetto del desiderio da parte di Nosferatu e pertanto unica in grado di fermarlo.
Cinquantasette anni dopo il capolavoro di Murnau, Werner Herzog credeva che il Nuovo Cinema Tedesco (di cui con Wenders e Fassbinder era uno degli esponenti di punta) dovesse confrontarsi direttamente con il grande cinema tedesco degli anni ‘20, riprendendo le fila di un discorso che il Nazismo aveva brutalmente interrotto. Nel riproporre le stesse vicende (riappropriandosi però dei nomi originali), il regista bavarese pone l’accento sulla collocazione del vampiro nella Natura: la scalata di Harker al castello di Nosferatu attraverso la tempesta (uno “Sturm und Drang” vero e proprio), che rievoca i dipinti romantici di Caspar David Friedrich, assume i contorni di una vera e propria impresa in cui l’uomo si confronta con le forze naturali, non del tutto dissimile da quelle (spesso folli) al centro di tutto il cinema di Herzog, sia di finzione che documentario. Il vampiro del film del 1979 non è una minaccia, bensì una tragica manifestazione del male assoluto (che in Germania in quegli anni ha ormai connotazioni storiche ben precise), pressoché invincibile, forse addirittura immune alla tanto temuta luce del sole. Una tale presenza demoniaca è resa possibile (e credibile) solo grazie all’ineguagliabile interpretazione di Klaus Kinski. Come testimonia l’immagine qui sotto, Kinski è stato un perfetto Nosferatu (azzardiamo: il migliore di tutti), ma se Nosferatu (quello “vero”, perdonateci la battuta) facesse l’attore non siamo sicuri che riuscirebbe ad interpretare un perfetto Kinski.
Venendo infine al Nosferatu del 2024 (arrivato da noi il 1 gennaio 2025), per Eggers Nosferatu È la morte (Thanatos), un male inestirpabile che va oltre il diavolo in persona e che, vivendo oltre la percezione umana, non è legato a nessun accidente storico. Inevitabilmente, dunque, il film enfatizza l’aspetto sessuale (Eros) presente, più o meno esplicitamente, in tutte le storie di vampirismo, rendendo il rapporto tra il vampiro ed Ellen (Lily Rose-Depp), i cui gemiti sono spesso volutamente a metà strada tra il dolore e il piacere, il cardine della narrazione.
Dopo un incipit di folgorante bellezza, che gioca con le ombre come la versione di Murnau (da cui Eggers riprende anche tutte le storpiature dei nomi) e vorrebbe essere una sorta di “origin story” della vicenda (ossessione, questa sì, tutta contemporanea), Nosferatu procede ad uno svelamento graduale della figura del vampiro interpretato da un Bill Skarsgaard pesantemente truccato (e con la voce modificata per ottenere un effetto cavernoso che nella versione originale mette effettivamente i brividi), che con l’avanzare della storia si espone sempre più agli occhi degli spettatori. Il viaggio di Hutter per raggiungere il castello del mostro è un modo per il regista americano di riprendere e illustrare (magnificamente, anche grazie alla fotografia del fidato Jarin Blaschke) tutti i cliché del cinema gotico: le carrozze spettrali che avanzano nella notte, i cavalli neri che nitriscono nel crepuscolo, il tenebroso maniero arroccato sulle montagne scarsamente illuminato dai bracieri, i mastini oscuri che difendono la tenuta del signore della notte e tutto il resto.
Così come il vampiro si nutre del sangue degli esseri umani per sopravvivere, il cinema di Eggers vampirizza un immaginario chiaro (prendendo in prestito anche da altri classici dell’orrore, su tutti L’Esorcista) distillandone delle immagini autosufficienti, in qualche misura effettivamente fuori dal tempo, con cui questo Nosferatu sembra non avere alcuna intenzione di dialogare. Non si tratta di un calco o di una copia carbone, ma piuttosto di una ossequiosa quanto studiatissima rielaborazione. A chi intende bollare tutta l’operazione come poco interessante o addirittura “vuota” verrebbe da chiedere in quanti, nel cinema dell’orrore contemporaneo (per di più mainstream, guardando i numeri al box office di questo Nosferatu, che ha da poco superato i 100 milioni di dollari di incasso), conducono una ricerca altrettanto stimolante sul piano dell’immagine.
Maria
di Pablo Larrain
Dopo Jacqueline Kennedy (Jackie) e Lady Diana (Spencer), Maria Callas va ad aggiungersi alla galleria di ritratti femminili in trasferta del regista cileno. In un genere che potremmo ormai ribattezare “biopic alla Larrain” seguiamo l’ultima settimana di vita della Divina, che dal suo esilio dorato di Parigi (con i due domestici italiani interpretati da Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher), simile alla prigione della residenza invernale degli Windsor in Spencer (lo script è sempre di Steven Knight), inebetita dai digiuni e dall’abuso psicofarmaci, sogna un impossibile ritorno sulle scene. Parla come Norma Desmond in Viale del Tramonto, Maria, icona troppo ingombrante persino per se stessa, condannata ab aeterno all’impossibile confronto con la perfezione (-Non ascolto mai i miei dischi -Perché? -Perchè sono perfetti), a cui dà corpo (e voce) Angelina Jolie, in una parte che vale e riecheggia, in un vertigionoso gioco di specchi, un’intera carriera. Intorno a lei, Larrain allestisce un teatro mentale, lo riempie (di musica, colori, comparse) fino a sformarlo, ne esibisce lo scheletro come in un melodramma (o in un film di Brady Corbet), si muove con disinvoltura avanti e indietro, dentro e fuori dal palco nella testa della Callas, con la fotografia sontuosa di Ed Lachmann, ora a colori, ora in bianco e nero, a evocare inattese suggestioni hitchcockiane: se Madeleine è vissuta due volte, Maria non rivive forse ogni volta che ascoltiamo la sua voce?