Happy Hour #43: Il passato e il futuro del cinema in Megalopolis
Numero dedicato interamente all'ultimo film di Francis Ford Coppola
La storia produttiva di Megalopolis meriterebbe, come spesso capita per le opere di Francis Ford Coppola, un film a sé stante. In alcuni casi, come per Apocalypse Now, questi film esistono (Hearts of Darkness: A Filmmaker's Apocalypse, noto in Italia col titolo di Viaggio all’inferno), mentre nel caso del Padrino si è scelto la forma della serie TV (The Offer), e non escludiamo che, se Megalopolis dovesse guadagnare nel corso degli anni lo status di cult, in futuro anche le vicende legate alla sua realizzazione potrebbero trovare la strada del grande (o del piccolo) schermo. Intanto basti sapere che Coppola, che cullava questo progetto da oltre quarant’anni, lo ha finanziato di tasca propria (parliamo di 120 milioni di dollari), vendendo le proprie aziende vinicole in California e trovando solo all’ultimo minuto, dopo il passaggio (senza premi) al Festival di Cannes di quest’anno, un accordo per la distribuzione del film negli Stati Uniti (dove, purtroppo, Megalopolis non ha incontrato il pubblico, incassando meno di dieci milioni di dollari). Un ruolo nel tonfo commerciale del film lo ha avuto probabilmente anche buona parte della stampa, che ha presentato da settimane (quando non addirittura da mesi) Megalopolis come un disastro annunciato (anche in Italia), quasi aspettandone il cadavere sulla riva del fiume.
Non avrebbe senso tuttavia bollare Megalopolis come un insuccesso solo alla luce dei risultati commerciali. La scommessa di Coppola è a lungo termine, e la storia del cinema (e della stessa carriera del regista: qualcuno ha detto Un sogno lungo un giorno?) è piena di film oggi considerati capolavori irrinunciabili che all’uscita non hanno incontrato i gusti del pubblico e di una parte della critica. La speranza è che anche Megalopolis possa andare incontro allo stesso destino. Nell’unica recensione di oggi proviamo ad argomentare perché si tratti di un film sorprendente, realmente unico, che consiglio senza riserve di andare a vedere al cinema a chiunque stia leggendo queste righe.
Megalopolis
di Francis Ford Coppola
Cesare Catilina è un architetto, a cui presta volto e fisicità allampanata Adam Driver, che progetta una nuova città in grado di restituire alle persone il proprio tempo, ma è anche un inventore, di un materiale, il Megalon (che gli frutta anche un Nobel), con cui questa città intende costruire. Nel privato, Cesare Catilina è un uomo fragile (vorrebbe forse uccidersi, nella prima scena del film?), un artista contrastato ossessionato dallo scorrere del tempo, teso come un Prometeo moderno verso il futuro mentre non riesce a liberarsi dagli spettri del passato, primo su tutti la morte della moglie, di cui è stato anche accusato (salvo poi venire scagionato), incubo ricorrente che tormenta le sue notti, oscura le sue visioni e gli impedisce di vivere l’amore con Julia Cicero (Nathalie Emmanuel), che oltre a una delle tante citazioni alla storia romana del film è anche un riferimento interno alla filmografia di Coppola, chiamandosi come la Vera di Cotton Club. Cesare Catilina è soprattutto uno dei rarissimi personaggi del cinema contemporaneo a rincorrere un’utopia: se il pianeta Pandora della saga di Avatar è uno dei pochi luoghi del cinema del nostro tempo in cui è ancora possibile sognare (sotto la minaccia costante degli umani, o di alcuni di loro), nella New Rome di Megalopolis (che poi è New York, e non probabilmente in un futuro lontano quanto in un presente alternativo) è un artista a immaginare la possibilità di un mondo migliore, mentre il nostro mondo vive in un collasso perpetuo, minacciato da catastrofi nucleari, magnati senza scrupoli e leader populisti che sobillano le folle (Shia LaBeouf, splendidamente sopra le righe, l’interprete più in linea con lo spirito di un film che demolisce consapevolmente ogni senso della misura).
Come il suo tormentato protagonista, la materia stessa di cui è fatto Megalopolis è scissa, divisa in una tensione irrisolta tra grottesco e sublime, comico e tragico, realtà e allucinazione (con un occhio a Jean Cocteau), analogico e digitale, in funambolico (dis)equilibrio tra passato e futuro del cinema, che nei momenti più strabilianti del film riescono a convivere nella stessa inquadratura, mescolando Abel Gance e le sorelle Wachowski (più dalle parti di Jupiter che non di Matrix), Seneca e Shakespeare, Beethoven e Taylor Swift, Ben Hur e Un’altra giovinezza, che si conferma il titolo-manifesto per decifrare l’ultimo ventennio della carriera di Coppola, che superati gli ottant’anni non si è stancato di continuare a sperimentare, creando nuove forme cinematografiche. Gli effetti digitali che danno forma alle visioni di Megalopolis non inseguono alcuna verosimiglianza, fregiandosi anzi di un orgoglioso, dorato anti-realismo che va in netta controtendenza rispetto alla maggior parte delle grandi produzioni contemporanee, da Gli anelli del potere a tutto il Marvel Cinematic Universe.
Reduce di una Nuova Hollywood che ha lasciato pochi superstiti e ancora meno eredi (Paul Thomas Anderson, James Gray, forse Sean Baker), mentre Spielberg e Scorsese guardano al passato (proprio, nel primo caso, e dell’America, nel secondo) con una sfolgorante perfezione neoclassica, Coppola, che alla New Hollywood aveva aderito con un piccolo film dolorosissimo (Non torno a casa stasera) prima di firmarne le pagine più gloriose, non si è stancato di re-inventare il cinema, ancora una volta, con la stessa ambizione titanica che l’ha portato a realizzare Apocalypse Now nella giungla delle Filippine, ma con una fiducia nel futuro (anche del cinema stesso) che a 85 anni compiuti non può che commuovere per sincerità e ardore. Prima della accorata dedica (quasi un perdono implorato un’ultima volta) alla moglie Eleanor, scomparsa ad aprile, Megalopolis si chiude con il vagito di un bambino: una dichiarazione poetica per un film che, sfidando il nostro gusto (gesto folle, in un’epoca di omologazione come la nostra, e anche solo per questo da difendere a spada tratta), ambisce a marcare la nascita di un nuovo cinema. Solo il tempo, quello che ossessiona Cesare Catilina nel film, potrà dirci se Coppola vincerà anche questa scommessa.