Happy Hour #37: Il Cinema Ritrovato
Una cartolina da uno dei festival di restauri più importanti al mondo, tenutosi a Bologna tra il 22 e il 30 giugno, tra Anatole Litvak, Marlene Dietrich e John Ford
“I see a lot of similarities between The Searchers (it. Sentieri selvaggi) and Hitchcock’s Vertigo (it. La donna che visse due volte). Made only two years apart, both about men on an obsessive quest for some version of a dead woman, both considered by many those directors’ dark masterpieces made at the peak of their power, both containing towering performances from good-guy moviestars, now going to the post-war dark side. And if we find both movies disturbing, each for its own reasons, discussions of racism and misoginy, even necrophilia, we must consider that we often judge complicated great artists not by what they express, but rather by the beauty, the ambition and the honesty with which they express it”.
Partiamo da queste bellissime parole con cui Alexander Payne ha introdotto la proiezione in 70 millimetri di Sentieri selvaggi di John Ford sabato 22 giugno, in Piazza Maggiore a Bologna, per la serata di apertura de Il Cinema Ritrovato, giunto alla 38esima edizione, per cercare di dare una risposta (tra le tante possibili) a una domanda scontata: a cosa serve un festival come questo, in cui ad essere mostrati non sono nuovi film di registi più o meno affermati, ma grandi capolavori della Storia del Cinema?
Nella presentazione del Festival, la co-direttrice Cecilia Cenciarelli ha parlato del Cinema Ritrovato come di un’occasione di resistenza culturale: condividere i grandi film della storia della settima arte è un modo per aiutare a formare spettatori consapevoli delle proprie radici, per permettere a generazioni di giovani (a cui il cinema, nelle scuole, non viene insegnato) di vedere grandi capolavori e confrontarsi con i maestri del passato. Sentieri selvaggi, Paris, Texas, I sette samurai, La conversazione, Les parapluies de Cherbourg sono solo alcuni dei titoli che sono stati mostrati in Piazza Maggiore in proiezioni gratuite, a cui può prendere parte anche la cittadinanza, oltre agli accreditati del festival: un esempio virtuoso che non possiamo far altro che applaudire. Anche perché solo mostrando il grande cinema, facendolo vedere, rendendolo “cool” (a presentare i film di cui sopra c’erano appunto Alexander Payne, Wim Wenders, Darren Aronofsky, Damien Chazelle e molti altri), si può far sì che la storia del cinema diventi, per usare le parole di Sergio Castellitto, “una malattia contagiosa”.
C’è un altro aspetto su cui vorrei soffermarmi, prima di passare più nel dettaglio ad alcune delle sezioni del festival: il lavoro di scoperta e ri-scoperta della Storia del Cinema fatto dal Cinema Ritrovato. Troppo spesso siamo portati a pensare al cinema del passato come a un qualcosa di polveroso, o comunque di assodato, da “dare per buono”, che non necessita di difese o, ancora di più, di approfondimenti. Ecco, credo che nessun festival come il Cinema Ritrovato (i film restaurati vengono mostrati anche a Venezia e a Cannes, per esempio, ma non sono protagonisti) serva a sfatare questa convinzione. La vastità e varietà della selezione è impressionante e si muove su coordinate sia geografiche che temporali: dal Giappone di Yoshimura (a cui è stata dedicata una retrospettiva di cui però purtroppo non siamo riusciti a vedere nulla) all’Iran di The Sealed Soil (primo film arrivatoci interamente diretto da una donna iraniana, Marva Nabili), da alcuni titoli meno noti di autori che amiamo (Die Rebellion di Michael Haneke, del 1993, di cui parleremo) ad altri di registi che (almeno in Italia) ancora non godono della diffusione che meriterebbero (pensiamo a Los Golfos, esordio dello spagnolo Carlos Saura, nell'immagine), il Cinema Ritrovato riscrive e riaggiorna le coordinate della Storia del Cinema, che mai come in questi giorni appare come una materia viva e cangiante sulla quale c’è ancora moltissimo da scoprire.
La parte finale della newsletter è dedicata alle retrospettive sul regista Anatole Litvak, sulla stella Marlene Dietrich e a un film: il citato Die Rebellion di Haneke, del 1993. L’appuntamento con le recensioni dei film in uscita (certo, anche del fenomeno Inside Out 2) è rinviato alla prossima settimana.
Marlene Dietrich
"Marlene Dietrich! Your name starts with a caress and ends with a whip." Sebbene sia impossibile limitare a poche righe la portata rivoluzionaria di un'attrice come Marlene Dietrich, riteniamo che queste parole di Jean Cocteau possano essere un buon punto di partenza. Sovente, nel corso della sua lunga carriera, Dietrich è stata in grado di alternare con eguale naturalezza una algida severità, sottolineata dagli spigolosi lineamenti del viso, e una più docile tenerezza, che ha fatto la fortuna di molti film girati con Josef Von Sternberg, regista austriaco di origine ebrea che (come molti altri in quegli anni) attraversò l'Atlantico in cerca di fortuna, e il cui nome è legato indissolubilmente al sodalizio con l'attrice di origine tedesca. Ben sette i film girati dai due, dall'esordio teutonico Der Blaue Angel (it. L’angelo azzurro) proseguendo con gli exploit hollywoodiani degli anni '30 (Morocco, Blonde Venus, Shanghai Express quelli mostrati quest’anno al Cinema Ritrovato). E se è vero che il nome della Dietrich inizia con una carezza e finisce con una frustata, in molti di questi film l'attrice ha invece compiuto il percorso inverso, impersonando personaggi femminili liberissimi, non convenzionali (come lei stessa, che nella vita si è accompagnata a innumerevoli amanti, uomini e donne, tra cui anche gli scrittori Hemingway e Remarque) e fuori dagli schemi (nella scena di Morocco, in foto, assistiamo al primo bacio lesbo della storia del cinema hollywoodiano), inizialmente inscalfibili all'apparenza, che nel corso del film fanno emergere piano piano un lato più tenero, fino ad abbandonarsi a dei finali di straziante dolcezza (su tutti, quello di Venere Bionda).
E se comunque i risvolti più "convenzionali" delle sceneggiature erano anche un mezzo con cui, di fatto, la portata eversiva di molti dei personaggi interpretati da Dietrich veniva in qualche modo contenuta, la sola presenza in scena dell'attrice riesce a rompere qualsiasi legaccio e liberare una forza che ancora oggi, a quasi cent'anni di distanza, appare immutata. L'aveva capito benissimo il più grande di tutti, Billy Wilder, che con Dietrich ha girato (oltre al capolavoro Testimone d'accusa) lo straordinario A foreign affair (it. Scandalo internazionale). Nel film, Dietrich interpreta Erika von Schlütow, una cantante tedesca che, nella Berlino dell'immediato dopoguerra, si esibisce in una bettola cercando di far dimenticare la propria vicinanza, pochi anni prima, con alti esponenti del regime nazista (ruolo che Dietrich, fervente antinazista, era restia ad interpretare). Quando, nel finale, Erika se ne va scortata da soldati americani (verosimilmente, destinata a finire in un campo di lavoro), anche in un momento di apparente sconfitta Dietrich è perfettamente in controllo della situazione: Erika ottiene di essere prima scortata al suo appartamento, sale le scale, meravigliosamente agghindata, con passo sicuro, mentre i cinque soldati scelti per accompagnarla incespicano goffamente, incapaci persino di reggersi in piedi tanto sono abbagliati dalla sua presenza. E, provandoci per un attimo a mettere nei loro panni, non fatichiamo a capire perché.
Anatole Litvak
Anatole Litvak ha passato i suoi primi trent’anni di vita a fuggire dalle dittature: nato nel 1902 a Kiev da una famiglia ebrea di origine lituana (Litvak vuol dire proprio “lituano”), scappa una prima volta in Germania (dove girerà i suoi primi film) a metà anni ‘20 per dissapori col regime sovietico, e una seconda volta in Francia, subito dopo l’ascesa al potere di Hitler nel 1933. Il successo mondiale di Mayerling gli spalanca le porte di Hollywood, dove si affermerà come regista di sistema affidabile e poliedrico, oltre che prolificissimo (37 titoli in 40 anni di carriera, spesso firmati anche in veste di produttore, che gli procureranno una nomination all’Oscar come Miglior Regista per La fossa dei serpenti e una per il Miglior Film con I dannati).
Caratterizzata da movimenti di macchina arditi e virtuosistici (tanto da infastidire James Cagney, secondo cui il regista si preoccupava solo di come muovere la macchina da presa), la produzione di Litvak spazia dal genere bellico (L'equipage, girato in Francia nel 1935, che è anche e forse prima ancora un melodramma) anche con tinte spionistiche (Decision before dawn, it. I dannati, 1951) alla commedia storica in costume (Anastasia, 1956, che fa rivincere l’Oscar ad Ingrid Bergman dopo anni di oblio hollywoodiano), passando per il melodramma sportivo (City for conquest, it. La città del peccato, 1940, che anticipa per certi versi il Robert Wise di Stasera ho vinto anch’io) e, ovviamente, il noir (Sorry, wrong number, it. Il terrore corre sul filo, 1948), e vede al centro personaggi persi, in crisi di identità, che hanno smarrito la propria bussola morale (Burt Lancaster in Il terrore corre sul filo), non riescono a trovare un ruolo nella società, dalla quale a volte si autoescludono con atteggiamenti distruttivi (James Cagney in La città del peccato), e, in definitiva, non sanno chi sono. Anche letteralmente: né la protagonista di Anastasia né tantomeno gli spettatori (come viene chiarito dalla didascalia iniziale) sanno se Ingrid Bergman nel film sia davvero la Granduchessa erede dello zar Nicola II, scampata all’esecuzione della propria famiglia (siamo in piena Guerra Fredda, e il film ha anche una funzione anticomunista) e intenta a guadagnarsi il consenso dei superstiti della corona per mettere le mani su una cospicua eredità.
Altrettanto in bilico è la condizione del soldato tedesco Carl in I dannati: catturato dagli americani nel ‘44, Carl acconsente a fare da spia per l’esercito a stelle e strisce, convinto così di poter aiutare la propria nazione in balia della follia nazista. Il suo viaggio di ricognizione in terra tedesca (con una nuova identità: nei documenti fornitigli dagli americani gli è stato cambiato il cognome) lo porterà però a dubitare delle proprie scelte, ponendolo davanti a dilanianti dilemmi esistenziali con cui la popolazione tedesca, anche giovanissima (in molte scene è evidente l’influenza di Germania Anno Zero di Rossellini, di tre anni precedente), è costretta a fare i conti. Ha due nomi anche Annabella in L’equipaggio: Heléne per tutti, e in particolare per il marito, il luogotenente Maury, Denise per l’amante Jean Herbillon, totalmente ignaro di essersi invaghito di una donna sposata. In guerra, Jean e Maury si trovano a dividere la cabina di pilotaggio di un aereo militare, e al primo rientro in congedo Jean scopre la doppia identità di Heléne/Denise quando le fa visita a casa (momento che Litvak sottolinea con una elegante carrellata in avanti che stringe sul primo piano dell’attrice).
In una produzione dominata da personaggi così ambigui e incerti, specchio evidentemente anche della condizione personale del regista, che ha cambiato quattro nazioni e tre continenti nei primi 35 anni di vita, il genere noir non poteva che essere l’approdo naturale per Litvak. Ed è senza dubbio Il terrore corre sul filo il titolo che maggiormente ci ha colpito tra quelli visti al Cinema Ritrovato: Leona (Barbara Stanwyck, una delle regine del genere), costretta a letto da una misteriosa malattia, intercetta per errore (?) una telefonata in cui due uomini si mettono d’accordo per uccidere una donna quella stessa sera, alle 23.15, durante il passaggio del treno notturno (provvidenziale per coprire le urla). Chi sarà la vittima designata? Leona prende in mano nuovamente il telefono e prova in tutti i modi a contattare il marito Henry Stevenson (Burt Lancaster), non ancora rincasato; questi però misteriosamente è irreperibile. Nel frattempo le lancette scorrono e le 23,15 si avvicinano inesorabili, mentre a suon di flashback (e flashback nei flashback, in cui realtà e immaginazione si mischiano senza soluzione di continuità ed è impossibile per lo spettatore distinguere il vero dal falso) e telefonate ripercorriamo la vita della coppia, legata alla potente industria farmaceutica del padre di Leona e ad una casetta sulla spiaggia che pare aver da poco preso fuoco. Con uno sfoggio di maestria che non teme paragoni, Litvak gestisce gli ambienti claustrofobici della camera da letto di Leona (in cui si svolge una buona metà del film) non limitandosi ad una regia statica, bensì esaltandosi con movimenti di macchina arditi che riescono a far dialogare la stanza con ciò che la circonda (citiamo a titolo di esempio un memorabile crane shot che, allo scoccare dell’ora fatidica, mette in comunicazione esterno ed interno dell’abitazione), sempre messi però al servizio della storia, che, uniti alle performance di straordinaria intensità e alla minaccia di un’ombra senza nome, contribuiscono a rendere Il terrore corre sul filo un capolavoro del genere.
Die Rebellion
di Michael Haneke, 1993
Andreas Pum, dopo aver perso una gamba nella Prima Guerra Mondiale, fa ritorno a Vienna, dove è costretto a vivere di espedienti suonando l'organetto in strada, e si innamora di una vedova con cui finisce per sposarsi. Malgrado la sua sorte sfortunata, o forse a causa di una paura inconfessabile, Pum non ha perso fiducia nello stato, e guarda con sospetto le proteste degli altri reduci che chiedono aiuto alle istituzioni. Quando però la macchina statale gli si parerà davanti in tutta la sua kafkiana assurdità, anche questa fede incrollabile gli si ritorcerà contro. Adattato dall'omonimo romanzo di Joseph Roth degli anni ‘20 e girato (per la televisione) a colori poi virati al seppia per restituire l'atmosfera d'epoca, in Die Rebellion Haneke esplicita ancora più che altrove il debito di influenze verso Robert Bresson. Pum è una sintesi di personaggi bressoniani, dall'asinello di Au Hasard Balthazar al ladro di Pickpocket, un essere solitario e inadeguato che vaga in un mondo senza speranza, crudele e ostile (cifra di tutta la produzione hanekiana), in cui Dio non c'è, se non quando ormai è troppo tardi per intraprendere la via della grazia. Nonostante il tono cupo e pessimista, rispetto alla coeva Trilogia della Glaciazione emerge un inedito sguardo compassionevole, probabilmente dovuto alla destinazione televisiva (molto distante comunque da un facile pietismo in cui sarebbe stato facile scadere), che riesce ad ammantare il film di un’inconsueta umanità che riesce persino a commuovere.