Happy Hour #28: La zona di interesse, tra Jonathan Glazer e Martin Amis
Focus sul nuovo film di Jonathan Glazer, premiato a Cannes ed attualmente in sala, e sul capolavoro letterario dal quale è tratto
Per uno strano scherzo del destino, il 19 maggio del 2023 ci ha lasciato all’età di 73 anni Martin Amis, scrittore britannico di lungo corso ed autore de La zona di interesse (Einaudi, 301pp) da cui Jonathan Glazer ha tratto l’omonimo film, che sarebbe stato presentato a Cannes in anteprima mondiale appena due giorni dopo, dove avrebbe vinto il Gran Premio della Giuria.
Ambientato nel (o meglio, appena fuori dal) campo di concentramento di Auschwitz, il romanzo di Amis affida ad una pluralità di voci il racconto della tragedia dell’Olocausto. Ogni capitolo, infatti, è diviso in tre sezioni, corrispondenti ad altrettanti narratori differenti: Angelus Thomsen, ufficiale nazista che si invaghisce di Hannah, la moglie del capo del campo, e sembra più preoccupato a rimediare scopate che non a sventare le atrocità di cui è testimone tutti i giorni; Paul Doll, gerarca a capo di Auschwitz (una versione fittizia del realmente esistito Rudolf Höss, la cui autobiografia è alla base tanto del libro di Amis quanto del film di Glazer), personaggio da operetta, geloso all’inverosimile nei confronti di Hannah (che lo ignora e lo umilia ogni volta che può) ed allo stesso tempo spietato e codardo assassino; Szmul Zacharias, Sonderkommando ebreo che cerca disperatamente di restare aggrappato alla vita, unica voce umana in un racconto di uomini ridicoli (nel migliore dei casi) e mostri.
Lo stile del libro di Amis è dunque variegato come i punti di vista dei suoi personaggi, e sovente assume le forme di una satira grottesca e terribile. Mentre i racconti di Thomsen e Doll sembrano più assomigliare ad un romanzo rosa ambientato nella Germania di quegli anni o al diario di un nevrotico burocrate alle prese con pensieri omicidi (come gasare tutti gli spettatori di un teatro durante un’esibizione di danza? Come convincere i prigionieri appena arrivati ad entrare nelle camere a gas senza far sorgere in loro sospetti sulla sorte che li attende?), le parti narrate da Szmul (non a caso le più brevi di ciascun capitolo) forniscono un controcanto straziante sulla tragedia della Storia che si sta consumando nell’indifferenza generale.
Oltre a questo, come forse si è intuito, nel romanzo di Amis c’è una forte componente narrativa: i rapporti tra i personaggi si evolvono, il passato viene a galla, ognuno cerca di rispondere a domande (narrativamente) fondamentali: come si sono conosciuti Hannah e Paul Doll? Perché si sono sposati, se lei sembra disprezzarlo così apertamente? Thomsen riuscirà a far breccia nel cuore di Hannah? Quando morirà Szmul? (Non se; quando).
In questa sede non risponderemo a queste domande, per le quali rimandiamo caldamente alla lettura del romanzo di Amis. Chi però ha visto il film La zona di interesse ed è arrivato fin a qui può a questo punto essere (legittimamente) confuso dalla quasi totale assenza di riscontri tra il film che ha visto e la trama dell’omonimo libro esposta qui sopra. Nella recensione che segue cercheremo di analizzare anche il lavoro di adattamento compiuto da Glazer, solo uno dei numerosi aspetti che rende La zona di interesse uno dei film più notevoli degli ultimi anni.
La zona di interesse
di Jonathan Glazer
Il lavoro di adattamento. Del romanzo di Martin Amis, Glazer riprende l’idea cardine, la scena madre: una signora che annaffia le piante mentre al di là del muro che delimita il suo giardino viene perpetrata la più grande tragedia della storia dell’umanità. Non c’è spazio per nessuna pluralità di voci, non c’è necessità di alcuno sviluppo narrativo, non c’è, soprattutto, bisogno di nessun controcampo umano. La zona di interesse non è Schindler’s List. Nessuno può salvare il mondo. La zona di interesse è un film di mostri. E infatti l’unica (esile) linea narrativa del film, con al centro una ragazza che nasconde delle mele nei campi di lavoro nella speranza che i prigionieri le trovino (storia vera anche questa, raccontata allo stesso Glazer dalla ragazza ormai anziana), è ripresa tramite una straniante camera ad infrarossi.
Lo stile. Ricercato, geometrico, freddo, kubrickiano. In un film, appunto, di mostri non c’è spazio per gli esseri umani. Completamente banditi, dunque, i primi piani. Nemmeno attori straordinari come Sandra Huller (che anno, il suo 2023) e Christian Friedel possono restituire il volto al male. Glazer non cerca di comprendere l’orrore (“forse quello che è accaduto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere”, scriveva Primo Levi, “perché comprendere vuol dire giustificare”). Si limita ad osservarlo con glaciale distacco. Per tutta i 105 minuti del film, gli attori vengono ripresi a grande distanza, accompagnati da rigide carrellate mentre mostrano il giardino ad amici e parenti o inquadrati in lunghi piani sequenza mentre giocano in piscina o parlano in riva al fiume. Le riprese in casa sono state effettuate con telecamere controllate da remoto, (come in un reality show, osservava Giulio Sangiorgio già nella recensione dalla Croisette), lasciando agli attori piena libertà di movimento, isolando i personaggi in un circuito chiuso mentre trascorrono le loro giornate come se nulla fosse (vi suona qualche campanello per caso?).
Il lavoro incredibile sul sonoro. Se nel romanzo di Amis era l’odore insopportabile a venire nominato più e più volte, nel film di Glazer è il crepitio incessante dei forni crematori a fare da tappeto all’intera vicenda. Di quando in quando, l’aria è squarciata da un urlo in lontananza o dall’eco di uno sparo. Solo in un momento uno dei figli più piccoli della coppia sente, alla finestra, l’ordine urlato da un soldato tedesco (“annegala”). Capisce, in quel momento, di essere di fronte a qualcosa di terribile, e fa dunque l’unica cosa che sa fare: torna a giocare come se nulla fosse. E se già per altri film ci è capitato di esprimerci contro il doppiaggio, per La zona di interesse ci affidiamo alle parole di Martin Amis: “La tragedia del nazionalsocialismo non si sarebbe potuta svolgere in nessun’altra lingua”.
Lo sguardo. Quello sulla famiglia Höss, isolata in un giardino dell’eden, che sceglie di non vedere, la moglie occupata a bearsi delle sue dalie e dei suoi amarilli, il marito preso da banali beghe da ufficio impiegatizio come se gestisse una qualsiasi filiale di banca. Quello, negato, sulle vittime della Storia, relegate costantemente fuoricampo. Glazer non è il primo ad interrogarsi sulla rappresentabilità della Shoah. In tempi recenti, Il figlio di Saul aveva operato una scelta in qualche modo simile, mostrando gli orrori di Auschwitz esclusivamente tramite la semisoggettiva di un Sonderkommando, lasciando le (altre) vittime sfocate sullo sfondo dell’inquadratura. La zona di interesse aggiunge alla discussione sulla rappresentabilità un tassello con cui non si potranno non fare i conti.
L’abisso. Nell’unico, geniale raccordo di sguardo di tutto il film, Rudolf Höss rompe la quarta parete, e dopo lo stacco di montaggio vediamo Auschwitz oggi, con scarpe e uniformi dei prigionieri racchiuse in rassicuranti teche di vetro, mentre un gruppo di inservienti si occupa delle pulizie prima dell’arrivo dei “turisti”. Prima di iniziare a riflettere su ciò che sta vedendo, e sulle problematicità che la museificazione del dolore porta con sé, lo spettatore è innanzitutto sollevato: può finalmente separarsi dalla famiglia Höss. L’illusione, tuttavia, dura solo pochi minuti. Höss è ancora lì, e guarda ancora verso di noi. Nel silenzio più totale, scende poi le scale, sparendo nell’oscurità. Partono i titoli di coda. Il film è finito. La zona di interesse invece rimarrà con noi ancora molto a lungo.